Credevo che in "Babel" R.F. ( recensione qui ) Kuang avesse intrapreso un'opera irripetibile di acuta, lucida e spietata critica del mondo accademico. Credevo fosse un libro coraggioso e che non si potesse scrivere nulla di più audace sul tema.
Eppure, con "Katabasis", l'autrice supera sé stessa, scegliendo di usare la sua ricca e forbitissima penna come una spada affilata per affrontare il tema serissimo e spinoso dell'abuso di potere più spregevole che possa riservare un ambiente didattico, portando ad un altissimo livello di granularità lo stesso tema già trattato da "Il dio di illusioni" di Donna Tartt e "A study in Drowning" di Ava Reid.
Quel che la Reid aveva sfiorato, qui viene esposto al lettore in tutta la sua bruttura, in tutto il suo squallore. Non è voyerismo ma necessaria e minuziosa analisi, quasi scientifica, di ricostruzione di una storia di abuso.
Alice, giovane ricercatrice di magia analitica, ha sacrificato tutto nel nome della carriera: gli anni migliori, le relazioni, la salute. Il suo sogno è quello di diventare una maga riconosciuta, una professoressa di magia. Per riuscirci ha bisogno di una lettera di referenze dal professor Grimes, figura eminente e influente nel mondo accademico.
Per ottenere l'approvazione del professore sopporta umiliazioni, sfruttamento e manipolazione psicologica, convinta che la sofferenza sia parte del percorso, un prezzo da pagare per essere “all’altezza”.
Ma un incidente — un errore banale, una distrazione di cui è lei stessa la responsabile — porta alla morte del professore. Senza di lui, Alice sa di non avere un futuro nel mondo accademico.
Questa consapevolezza la porta alla decisione di discendere all’inferno per riportarlo in vita.
Una scelta che può apparire folle, ma alla sua mente analitica risulta l'unica possibile, anche perché potrebbe permetterle di ottenere di nuovo il suo favore che, negli ultimi tempi, aveva perso.
Quello all'inferno è un viaggio che richiede un prezzo altissimo - sacrificare metà degli anni che le restano da vivere - eppure Alice lo paga senza esitazioni.
Sarà accompagnata da Peter, un altro ricercatore magico, che a sua volta ha le proprie buone ragioni per riportare in vita il professor Grimes.
Ma cosa è successo davvero nelle loro vite da legarli al mondo accademico? E cosa li lega così intensamente al loro professore?
Il loro viaggio nel mondo dei morti li condurrà ad esplorare anche gli angoli tetri del loro passato e della loro vita accademica apparentemente meravigliosa, dove si nasconde una realtà terribile.
Perché, come diceva Tolkien: "non sempre è tutto oro quello che luccica."
In greco, katábasis significa “discesa” — e nella tradizione mitica è la discesa agli inferi, ma anche la discesa dentro di sé.
Nel romanzo di Kuang, l’inferno non è solo un luogo fisico: è anche la mente di Alice, popolata dai ricordi dei momenti vissuti con il suo professore, dall'ossessione totale della vita accademica, sua unica ragione di vita.
"Per un incarico di docenza avrebbe sacrificato il suo figlio primogenito. Si sarebbe tagliata un braccio o una gamba. Avrebbe dato qualsiasi cosa, l’importante era mantenere il proprio cervello, riuscire ancora a pensare."
La sua discesa non è solo una ricerca del professore morto, ma di sé stessa — della parte di sé che ha creduto nella favola del merito. Alice deve scendere dentro sé stessa, rivivere quel che ha vissuto, quel che è accaduto. Deve analizzarlo per poterlo comprendere.
Alice racconta a sé stessa una versione dei fatti che non coincide con la realtà. Cosa è successo davvero?
Viene analizzato il legame tra Alice e Peter.
Il libro ripercorre i loro primi anni nella ricerca, entusiasti, capaci di condividere idee e momenti felici, prima che tutto il bello del loro lavoro venisse inghiottito da un atteggiamento competitivo e spietato che non lasciava spazio a momenti autentici.
Due ragazzi fra cui nasce un sentimento che non ha avuto modo di sbocciare perché diviso da muri di silenzio, di fraintendimenti, di rivalità.
Eppure, non sono mai stati agli antipodi, ma pedine ugualmente sostituibili nelle mani del professor Grimes, deus ex machina dell'intera loro vita accademica.
Proprio il rapporto fra Alice e il professor Grimes, che viene svelato un pò alla volta, capitolo dopo capitolo, è il cuore velenoso del romanzo.
Il professore ha piegato la mente della sua allieva, sottoponendola ad abusi ed umiliazioni sempre più pesanti e crudeli, sino al momento in cui, cercando di sedurla e vedendosi rifiutato, ha deciso di cancellarla dalla narrazione, chiudendola in un gioco di silenzio e crudeltà impossibile da sopportare.
Quello che ha subito Alice non è semplicemente abuso di potere, ma anche un tradimento di quella promessa implicita e sacra tra insegnante e allievo, tra chi guida e chi si affida.
Grimes la seduce intellettualmente prima ancora che emotivamente: lusinga, incoraggia, concede piccole dosi di attenzione come premio, per poi ritirarle, sostituendole con parole amare e crudeli.
Il professore concede e toglie, e Alice desidera le sue attenzioni come una manna dal cielo.
Il professore non assume questo atteggiamento solo nei suoi confronti, ma anche con gli altri numerosi collaboratori che lo circondano e lo adulano. Ogni giorno li pone uno contro l'altro, fa in modo che non si spalleggino, li rende rivali e prova un perverso piacere a guardarli competere per la sua attenzione.
Il laboratorio, spazio mentale prima ancora che fisico, lungi dall'essere un nido sicuro per chi studia e si impegna, si trasforma così in un'arena dove ognuno impara a misurare il proprio valore sul metro dell'approvazione del professore, sopportando ogni umiliazione.
“Quello di cui Alice aveva più bisogno, allora, era una bella lunga vacanza — e forse poi un periodo di ricovero in qualche struttura isolata vicino al mare.
Ma saltare il laboratorio non era un’opzione. [...] Alice era disperata di tornare nelle sue grazie. [...]
Nei brevi momenti in cui i loro sguardi si incrociavano, il respiro le si fermava, e pensava che forse le sarebbe piaciuto morire.”
Il respiro di Alice che si spezza davanti al professore non è solo paura: è l’impossibilità di esistere fuori dal suo sguardo.
Il comportamento del professore è gravissimo: far credere ai propri studenti di essere apprezzati, e invece usarli solo come specchio del proprio narcisismo.
«Ci sono promesse di poco conto, certo. [...] E poi ci sono le dichiarazioni. [...] Il genere di promesse che un insegnante fa al proprio studente.»
Questa frase è quella che ho ritenuto maggiormente incisiva.
Il professore, come una figura sacra, nel momento in cui accetta uno studente, gli promette implicitamente protezione e rispetto. Infrangendo quella promessa non si dimostra solo una persona volgare, ma compromette quel legame sacro che dovrebbe rimanere intoccabile.
E allora la discesa di Alice è necessaria perché è l’unico modo per affrontare la verità: l'attenzione oscura del professor Grimes non era cura, non era rispetto, e neppure una forma di affetto romantico. Era una forma malata di potere.
Eppure, anche comprendendo questo, Alice non riesce a smettere di desiderare la versione di lui che le era stata promessa. Non può smettere di continuare a difenderlo, a cercare giustificazioni al suo comportamento. Perché, in fondo, cos'ha fatto di male, lui?
Dopotutto, è stata colpa di Alice. Perché lei, negli sguardi intensi di lui, si ritrovava a desiderare delle attenzioni differenti, quasi romantiche. E dunque, non è forse causa del suo stesso male? Accettare il gioco non significa forse accettare la possibilità di perdere, di diventare vittima?
"Difficile dire dove finiva l’illecito del professor Grimes e dove iniziava la propria complicità. Difficile stabilire dove aveva sbagliato.
Avrebbe dovuto capirlo fin da subito.
Era l’agnello che si era cacciato dentro la tana del leone perché voleva vedere con i suoi occhi se quel che si diceva era vero. In fondo in fondo, una parte di lei voleva essere divorata."
Ma, come scrive Neil Gaiman in "Coraline": "Nessuno vuole tutto quel che desidera. Non veramente." E allora, quello che nasce come un'infatuazione intellettuale, un'astratta fantasia da lontano che non desidera una reale concretezza, sfociata al massimo in uno sguardo sognante, può essere definita veramente una colpa?
È in questa contraddizione di Alice - provare un intreccio confuso di fascinazione, idealizzazione e timore nei confronti del suo professore - che il romanzo si concentra, e la protagonista si smarrisce.
Quel che segue è un brano significativo:
“Desiderava riavere il controllo della sua mente, desiderava essere più di un corpo, più di semplice carne, un oggetto da incidere e osservare e su cui riversare le proprie attenzioni nei momenti di noia. Desiderava la versione di lui che le era stata promessa, quella di un insegnante che teneva a lei, la rispettava come studiosa, non la trattava come uno strumento.
Ma era tutta una favola. Nell’instancabile sforzo di avvalorare il prestigio e il fascino di essere una studentessa del professor Grimes, si era preclusa ogni altra alternativa. E ora si trovava nella trappola che aveva costruito con le sue stesse mani.
È inutile, rifletteva scoraggiata. È inutile cercare di uscire da questa situazione. Provarci significa distruggere tutto. Se si smette di credere anche a un solo postulato, l’intero edificio crolla.”
In queste righe, la Kuang cattura l’essenza del tradimento accademico e umano: il momento in cui si acquisisce consapevolezza di essere stati ridotti a strumento e carne dal mentore da cui ci si aspettava guida e rispetto.
La violenza del professore non è solo fisica o verbale: è cognitiva. È l’appropriazione della mente, del tempo, del desiderio dell'altra persona.
Alice non è solo sfruttata: è occupata. Il suo spazio mentale non le appartiene più.
Il desiderio di“riavere il controllo della sua mente” è il grido muto di chi si accorge troppo tardi di essere stato colonizzato nel pensiero, convinto che la stima del carnefice potesse giustificare l'ingiustificabile.
Alice non è più libera di pensare, perché pensare significa mettere in discussione il mito che la tiene in vita.
Quando Kuang scrive: “Se si smette di credere anche a un solo postulato, l’intero edificio crolla" con il termine postulato si riferisce all'intelletto del professore, burattinaio che gioca con le vite dei suoi sottoposti: è malvagio ma è un genio, un gigante, e quindi può permettersi ogni crudeltà.
Se si mette in dubbio la sua grandezza, tutto il senso del dolore si sgretola.
E allora è impossibile dare la colpa a lui: Alice deve dare la colpa a sé stessa, perché solo in quel modo quel che è accaduto ha un senso.
Meglio credersi colpevoli che accettare di essere stati privati della libertà di scegliere.
La colpa, almeno, dà l’illusione di controllo.
Ma non è la verità. Nessuna delle azioni di Grimes è giustificabile, o provocata da Alice, che contrariamente a quel che crede non è mai stata libera di scegliere, ma solo attrice casuale di un copione già scritto per lei.
"«Smetti di giustificarlo.»
«Io non...»
«Ci stavi provando. Ascolta, Alice, ci sono passata anch’io. Per anni ho cercato di giustificarlo. Tutto quello che hai appena detto, io l’ho già vissuto. Ci ho riflettuto. Quindi fidati di me se ti dico che non c’è niente da scoprire. Certe persone sono crudeli, punto e basta. Non c’è premeditazione. Non sono dei giganti. Non lo fanno per un motivo preciso, semplicemente gli piace comportarsi così."
La discesa di Alice all’inferno non è dunque un atto magico, e l'intero romanzo non è solo un'avventura fantasy, ma metafora di una lenta e dolorosa elaborazione di un fortissimo trauma relazionale e psicologico.
Che nella realtà non costa anni di vita, ma certamente ha un costo emotivo altissimo.
Alice crede di intraprendere un viaggio per riconquistare ciò che ha perso e invece si trova a dover affrontare - e accettare - come è stata ingannata.
Nel tentativo di riportare in vita il suo professore, cerca di dare un senso a un dolore che non ne ha.
"«Da come parli sembra che tu neanche sappia perché sei qui.»
«Esatto.» La sua frustrazione la sfiniva. Alice avrebbe voluto scacciarlo via come una mosca fastidiosa. «Io non lo so. Sono solo stanchissima.»
«Ma non ti importa di niente?»
«Lo so, forse dovrei.»"
Vuole “riparare” la storia, come fanno tutti i sopravvissuti all’abuso: tornare indietro, rimettere ordine, riscrivere l’istante in cui tutto è crollato.
Ma il romanzo suggerisce che non c’è resurrezione da un evento come questo, solo consapevolezza, apprendimento.
Dopo la "Katabasis" non si può tornare come prima. Ma a quel punto può esserci risalita: l’anábasis, che arriva quando Alice smette di cercare giustificazioni e accetta di chiamare il male con il suo nome.
Quando smette di credere che fosse colpa sua.
Quando, finalmente, si riappropria della sua mente.
La risalita non cancella la ferita, ma restituisce dignità a chi l’ha subita. È il momento in cui la voce torna ad appartenere a chi era stato ridotto al silenzio.
R.F. Kuang descrive con precisione chirurgica un dolore che non è solo individuale, ma collettivo: quello di intere generazioni di studenti, ricercatori, allievi che hanno confuso lo sfruttamento con il privilegio, che hanno giustificato l'abuso, perso sé stessi lungo la strada.
"Katabasis" è un romanzo talmente doloroso che non so se consigliarlo. Credo che non sarà capito del tutto da chi non ha vissuto in un microcosmo tossico e lo ha visto corrodersi dall'interno, anche se forse tutti dovrebbero leggerlo per imparare a individuare sul nascere i germi di un rapporto lavorativo tossico, comportamenti che si ripetono uguali sempre negli stessi schemi.
Ritengo, comunque, che sia una lettura necessaria soprattutto per chi ha vissuto un'esperienza uguale o vagamente simile a quella narrata, perché può essere un romanzo catartico, un supporto valido nell'elaborazione di quel che è accaduto.
L'esperienza di Alice è quella di tante donne, soffocate nel buio di un legame che toglie la voce, e la lenta, faticosa risalita verso la possibilità di credere che sia possibile aprirsi una strada incorrotta in un mondo perverso.
E allora, per tornare alla citazione di Tolkien: "Non è tutto oro quello che luccica, e non tutti gli erranti sono perduti."
Alice è un'errante, si è perduta.
Ma può ritrovarsi, riuscendo a perdonarsi.
E deve ritrovarsi. Deve farlo, perché è il solo modo per tornare ad appartenere a sé stessa. A vivere di nuovo. A respirare.