Ho letto "Il Colibrì" perché mi è stato consigliato da una persona nel cui giudizio ripongo grande fiducia: è stato il mio primo confronto con l'autore, di cui non avevo letto altri libri.
Parlo di "confronto" e non di "approccio" perché, a lettura ultimata, mi sembra di essere reduce di una lunga battaglia, che mi ha lasciata spossata e ferita, e sento le mente attraversata da tanti pensieri, riflessioni ingarbugliate.
Sto scrivendo nel tentativo di chiarire la confusione nella mia testa, di riallineare tutte le idee, di analizzarle meglio una per una.
"Il colibrì" è un libro che incuriosisce subito per la sua copertina gialla, per l'originale uccellino da cui prende il titolo al testo, che un pò mi riportava alla mente "Il cardillo innamorato" della Ortese e "Il cardellino" di Donna Tartt.
A lettura ultimata posso dire di non essere andata lontano con gli accostamenti, visto che anche qui si trova un'intensa storia umana, tragica e intensa, fortemente intrisa di metafora. E un pizzico di fantastico, nelle iperboli funzionali al racconto.
Marco Carrera: padre esemplare, marito fedele, dedito oculista.
Una vita apparentemente perfetta, in cui ogni elemento è ordinato e al suo posto.
Ogni certezza viene però spazzata via dall'incontro con l'analista di sua moglie che, infrangendo la segretezza a cui la professione lo vincola, per tutelare la sua incolumità decide di parlare con lui e confessargli qualcosa di sconcertante che farà crollare la vita che si è costruito.
Ma la vita di Carrera, del resto, è sempre stata tutt'altro che perfetta.
La storia segue le vicende del protagonista dalla sua nascita sino al giorno della sua morte, ripercorrendone l'infanzia, l'adolescenza, l'età adulta e la vecchiaia: una vita intrecciata di dolori e sofferenze, e qualche raro momento di fulgida bellezza.
La scelta della narrazione è particolarmente interessante: un intreccio di presente, passato e futuro, con un narratore onnisciente che anticipa, preannuncia, commenta, pontifica.
Il testo è difficile da leggere perché manca di linearità: zigzaga fra gli anni, tace diverse cose, che pure al lettore arrivano con forza; a volte offre risposte prima delle domande; certe domande restano aperte sin quasi alla fine.
Filo conduttore del romanzo è la resilienza, che Marco Carrera potrebbe a buon diritto annoverare tra i suoi pregi: la capacità di sopravvivere nonostante le avversità, di raccontarsi la realtà a modo suo ma senza mai mentirsi o mentire, di vivere anche quando intorno a lui c'è la morte.
Morte delle persone che lui ama, ma morte anche di un sogno, di un progetto, di un'idea di vita.
Si parla molto d'amore: quello poetico che lo lega a Luisa, unica donna da lui amata, un amore che non potrà mai vivere se non per lettera e in brevi parentesi della vita di entrambi, a causa dello scorrere delle loro esistenze ad un ritmo diverso. L'amore impulsivo e giovanile che lo lega a Marina. Quello feroce che lo lega al gioco d'azzardo. Poi il sentimento tenero e assoluto che lo lega alla figlia e infine alla nipote.
Un leitmotiv del libro è la psicoanalisi. Marco Carrera non ricorre mai all'aiuto di un analista, ma tutte le donne della sua vita vi hanno fatto ricorso: sua madre, Marina, Luisa, sua figlia, sua nipote.
Marco non crede nella psicoanalisi e non vi ricorre mai, eppure con lo psichiatra della sua prima moglie ha un dialogo continuo, costruttivo ed importante, che proseguirà fino alla vecchiaia, e che lo aiuterà in momenti delicati della sua vita. E tutto il testo è l'analisi approfondita di un personaggio multiforme e intessuto di colpa e tormenti.
Quel che mi porto dietro dalla lettura di questo libro è soprattutto la riflessione sugli sguardi: da oculista, Carrera attribuisce grande importanza agli occhi, agli sguardi, al vedere e di esser visti. Gli sguardi creano, gli sguardi disfano. Definiscono, disegnano, racchiudono, liberano. Anche gli occhi diventano strumento asservito alla metafora: vedere per vivere, perché non si può vivere con gli occhi chiusi. Altrimenti si cade in burroni profondissimi, dai quali difficilmente c'è possibilità di risalita e salvezza.
Vedere quindi, per esistere. Dinanzi agli altri e dinanzi a sé stessi.
Un libro particolare, quindi: complesso, sfaccettato, narrato in maniera contorta e come se il legame fra i capitoli fosse dettato dai ricordi che via via riemergono in questo racconto di vita piuttosto che dalla successione temporale degli eventi, con una prosa forbita e incredibilmente ipotattica, che spesso diventa flusso di coscienza e costringe il lettore a seguire quel fiume di parole ovunque l'autore intenda condurre le sue acque misteriose.
Una storia di vita, dunque. Verosimile, quasi.
Perché "Il colibrì" è prima di tutto una metafora, metafora del vivere e del morire, della gioia e del dolore.
Metafora di quel "quasi" che difficilmente si riesce a toccare, a raggiungere: di un'esistenza vissuta nell'eroismo quotidiano, dove non si vincono medaglie, coppe o trofei, spesso non si conquista il grande amore, non si vive la vita che si desidera. Quella vita in cui raramente si vince. E, anche quando si vince, si scopre poi che quella specifica vittoria non valeva nulla.
Spesso si pede.
Ma comunque, con ogni mezzo possibile, si vive.
Senza mai chiudere gli occhi.
"Ti piace giocare a pallone? Giocaci. Ti piace camminare in riva al mare, mangiare la maionese, dipingerti le unghie, catturare le lucertole, cantare? Fallo. Questo non risolverà nemmeno uno dei tuoi problemi ma nemmeno li aggraverà, e nel frattempo il tuo corpo si sarà sottratto alla dittatura del dolore, che vorrebbe mortificarlo. [...] Non dico che le tornerà la voglia di vivere. Probabilmente non le tornerà. Ma starà comunque vivendo."