Vengano, signore e signori che in qualche modo sono stanchi di Londra, vengano con me anche coloro che sono arcistufi del mondo che conosciamo: perché abbiamo nuovi mondi, qui.
Queste le parole usate da Lord Dunsany, rivolte ai lettori in procinto di avventurarsi nelle terre meravigliose descritte nelle sue opere.
Tuttavia egli non usa una narrazione esclusivamente fantastica, ma si tiene sempre saldamente ancorato alla realtà, come evidenzia Massimo Scorsone, autore della prefezione, il quale scrive di Dunsany che:
Può essere forse giudicata un’ovvietà rimarcarlo, ma (...) Lord Dunsany, oltre a ergersi «a campione di un bizzarro universo di fantastica leggiadria» e a votarsi, sul campo di battaglia del sogno, «a una guerra eterna contro la grossolanità e il laidume della concretezza diurna», mantenne (...) relazioni con una realtà per nulla avulsa dalla storia e dall’ambiente in cui era immerso.
Ci sono storie che diventano pilastri fondamentali per gli autori che verranno in seguito. Storie sepolte sotto strati di leggende, che si impongono come fari nella notte, nell'oceano di tutte le avventure immaginarie che saranno narrate successivamente. Quando questo accade, la letteratura diventa immortale, affermandosi come un richiamo fondamentale per gli autori successivi, similmente al suono incantevole di un violino che rimane sopito nella mente di chi ne ascolta la melodia anche molto tempo dopo che è stato udito e, coscientemente o meno, viene rielaborato e influenza la produzione artistica dell'ascoltatore.
Numerosi e noti sono gli scrittori che hanno preso dichiaratamente ispirazione da Lord Dunsany, a partire da coloro che con le loro opere hanno costituito le colonne portanti del fantasy: Tolkien e Ursula K. Le Guin.
Questa magnifica raccolta, edita da Mondadori nella collana Oscar Vault, con una copertina "fantasmagorica", proprio come il titolo, che brilla di vari colori, è un capolavoro. Per la tematica trattata -il folklore irlandese - il logo OscarVault è diventato un piccolo fauno, adattandosi all'opera.
Il volume è arricchito dalle magnifiche e suggestive illustrazioni originali di Sidney Herbert Sime. Nei suoi disegni prendono forma figure leggendarie che sembrano vive ed aiutano a calarsi nell'atmosfera fatata delle storie narrate.
L'edizione racchiude due raccolte di racconti "Il libro delle Meraviglie" e "Demoni, uomini e Dei" e due romanzi "La figlia del re degli elfi" e "La maledizione della veggente."
Questo articolo analizza il romanzo "La figlia del re degli elfi."
Nel paese di Erl, un anziano sovrano è pressato dalle richieste del suo popolo: i sudditi vorrebbero essere infatti governati da un mago.
Con le giubbe di pelle color d’ocra e di scarlatto lunghe fino alle ginocchia, gli uomini di Erl si presentarono davanti al loro maestoso signore dalle bianche chiome, nella grande sala rossa.
Seduto sul suo trono scolpito, il sovrano prestò orecchio al loro portavoce.
E l’oratore così parlò:
«Per settecento anni i capi della vostra stirpe ci hanno guidato bene, e le loro imprese furono cantate da umili menestrelli, rivivendo così nelle loro ballate benché, oh, di così tenue respiro. Però le generazioni passano, e nulla di nuovo v’è di cui si canti.»
«Che cosa vorreste?» domandò il sovrano.
«Vorremmo essere governati da un mago.»
«E così sia. È da cinquecento anni che il mio popolo si esprime a questa maniera, in parlamento, e sarà sempre come il vostro arengo desidera. Avete parlato. Così sia.»
E alzò la mano e li benedisse e gli uomini di Erl si ritirarono. [...] E il vecchio signore mandò a chiamare il figlio maggiore, comandandogli di comparire alla sua presenza. E in men che non si dica il giovane fu dinanzi a lui, assiso sulla stessa sedia scolpita dalla quale non si era mosso, mentre la luce, entrando a fiotti dalle finestre, dava risalto allo sguardo del vecchio signore, proteso verso il futuro. E in quell’atteggiamento impartì i suoi ordini al figlio.
«Mettiti in cammino prima che i miei giorni giungano al termine, e perciò prosegui spedito; va’ verso il punto dove sorge il sole, oltre le terre conosciute, finché troverai le lande che riconoscerai per certo come fatate, e varca il loro confine segnato soltanto dal crepuscolo e raggiungi il palazzo di cui si dice soltanto nelle ballate.»
«È molto lontano...» mormorò il giovane Alveric.
«Sì, è molto lontano.»
«Sposerai la figlia del re del paese degli Elfi.»
Al giovane vennero in mente: la bellezza, la corona di ghiaccio e tutte le cose dolcissime che le antiche saghe avevano narrato di lei. Di lei si cantava sulle colline selvagge dove nascevano le fragoline di bosco, al crepuscolo, alla luce delle prime stelle, e chi udiva il canto non scorgeva anima
viva. A volte era soltanto il suo nome a essere ripetuto, scandito dolcemente, ancora e ancora. Quel nome era Lirazel. Una principessa di stirpe di maghi. Al suo battesimo gli dei avevano inviato le loro ombre, e anche le fate avrebbero voluto intervenire, ma poi si erano spaventate al vedere le immense ombre degli dei passare sulle loro terre rugiadose, e se ne erano rimaste nascoste nei calici dei pallidi anemoni rosa, e standosene in essi avevano benedetto Lirazel.
«Il mio popolo vuole un mago per sovrano.》
Così il sovrano domanda al figlio Alveric di recarsi nella lontana terra degli elfi, e di sposare la figlia del re, una fanciulla di nome Lirazel.
La sua bellezza è cantata in numerose ballate, e Alveric promette al padre che farà quanto gli è stato richiesto. Porta con sé una spada magica, e si incammina alla ricerca del misterioso confine oltre il quale dovrebbe trovarsi la terra magica degli elfi.
Riesce a raggiungere l'epica terra, un luogo dove ogni colore è più vivido delle pallide tinte terrestri, gli animali e gli alberi parlano e pensano come esseri umani, e concetti mortali quali il tempo e la finitezza sono stati aboliti dall'eternità.
Alveric incontra quasi subito la principessa, la quale incuriosita dalla diversità del principe che proviene dalle terre mortali, si lascia incantare dal suo fascino, per lei esotico, e fugge con lui nel suo regno.
Quando Alvaric fa ritorno nella sua terra, la dilatazione del tempo fra i due mondi ha fatto sì che fossero trascorsi molti anni. Il vecchio re ormai è deceduto, ma tutti sono felici perché il principe ha mantenuto fede alla sua promessa, e sicuramente l'erede avrà sangue elfico nelle vene.
I primi tempi, la vita nel regno di Erl, per Lirazel, esperienza nuova ed affascinante, è piacevole e ricca di scoperte. Ma ben presto si rende conto di essere troppo diversa da Alveric.
Fra i due giovani, sebbene uniti da un legame amoroso, sembra ergersi una barriera invisibile, costituita da una visione della vita completamente differente.
Tra le anime di Alveric e di Lirazel c’era tutta la distanza esistente fra la terra ed Elflandia, e soltanto l’amore faceva da ponte, perché è molto più potente di qualsiasi cosa; tuttavia quando si fermava un attimo su quel ponte e abbassava lo sguardo sull’abisso, Alveric si sentiva stordito e non poteva frenare un brivido. Come sarebbe finito tutto ciò? E temeva che si potesse trattare di qualcosa ancora più strano dell’inizio.
Dal canto suo, Lirazel non vedeva la necessità di dover conoscere altre cose. Non era bella? Alveric non era forse venuto a prenderla per portarla via da quei luoghi che si estendevano luminosi tutto attorno al castello che può essere descritto soltanto nelle ballate, per strapparla al suo singolare destino e alla sua perpetua tranquillità? Non era già una cosa tanto straordinaria in se stessa? Doveva proprio arrivare a capire tutte le strane cose che la gente faceva? Doveva astenersi dal danzare per la strada, dal conversare con le capre, ridere ai funerali e cantare di notte? Perché? Perché l’allegria doveva essere nascosta e rimanere in silenzio in quella strana terra nella quale era finita?
Poi, un giorno, si accorse di essere diventata meno bella, proprio come accadeva alle donne di Erl. Si trattava di un cambiamento pressoché insignificante, ma il suo sguardo attentissimo se ne accorse senza possibilità
di dubbio. E perciò corse in lacrime da Alveric, per essere confortata, perché temeva che il tempo delle terre conosciute avesse il potere di deturpare la sua bellezza che i lunghi secoli di Elflandia non avevano mai intaccato. E Alveric aveva risposto che il tempo, come tutti sanno, deve avere il
suo corso... e a che serviva lamentarsi?
Lirazel si sforza di andare incontro ai desideri del marito, ma lui spesso fraintende la sua buona volontà, e questo dilata lo scarto fra i due.
La più grande incomprensione, per la fanciulla, è la religione del marito: lei è totalmente lontana dal culto cristiano, mentre per lui non esiste altra religione possibile.
Si aspetta che lei veneri gli oggetti sacri, ma quella devozione strana suscita in lei una forte ilarità. Tuttavia, per compiacere Alveric, si esercita venerando le pietre e le stelle. Quando lui la sorprende, crede invece che sia intenta in uno dei suoi culti pagani, e la rimprovera aspramente.
Perciò uscì nella notte, raggiungendo un ruscello che scorreva poco lontano, e ne tirò fuori alcuni grandi ciottoli che sapeva come trovare, astenendosi dal guardare l’immagine riflessa delle stelle. Quegli stessi sassi che
nell’acqua brillavano rossicci o color malva, ora apparivano soltanto più
come masse scure. Però li riprese e li portò sul prato – quei ciottoloni levigati le piacevano – perché in qualche modo le ricordavano quelli di Elflandia.
Li dispose in fila, uno per significare il candelabro, uno la campana e
uno la sacra sfera. “Se riesco a venerare questi sassi,” disse a se stessa “riuscirò a venerare
gli oggetti del Pastore.” Quindi si inginocchiò dinanzi ai pietroni piatti e li pregò come se fossero qualcosa di cristiano. E Alveric, cercandola nella notte incombente, temendo che le fantasie
potessero trascinarla chissà dove, udì la sua voce sul prato che salmodiava
preghiere di offerta e di devozione verso i sacri oggetti. Vedendo i quattro grossi ciottoli piatti che stava pregando inginocchiata
sul prato, le disse che non esisteva modo peggiore per comportarsi da pagana. E lei rispose: «Sto imparando a venerare le cose sacre del Pastore».
«È un comportamento da pagani.»
Lirazel, ogni giorno, sente più insormontabile la differenza fra lei ed il compagno umano. Inoltre inizia ad avvertire sulle belle spalle lo scorrere del tempo. Il mondo terrestre le sembra sempre più difficile da capire e le risulta ostile.
Il richiamo della natura e del mondo magico la attira continuamente verso la sua terra, alla quale farà ritorno, non riuscendo più a sopportare di vivere in un mondo al quale sente di non appartenere. Neppure il suo bambino Orione saprà trattenerla nel mondo mortale.
Saprà Alveric riportarla a casa?
E riuscirà a trattenere presso di sé almeno il figlio, che sente perennemente le trombe di Elflandia?
Inoltre, quando il confine tra le due terre diventerà labile, come reagirà il popolo di Erl, che per tanti anni ha desiderato la magia, ma se ne troverà praticamente sopraffatto?
Il popolo di Erl ha desiderato la magia, per ragioni di prestigio e lustro, tuttavia, quando il confine fra i due mondi diventa labile e meno definito, respinge la ventata di cambiamento portata dall'elemento magico eccessivo e dinanzi al quale si scopre incapace di reagire. Il comportamento del popolo di Erl rappresenta la reazione dell'uomo, quando ottiene ciò che desidera e si rende conto di non essere all'altezza del desiderio.
Pochissimi esseri umani sono pronti alla magia e all'effetto dirompente che questa può avere sulla vita. Infatti sono pochissimi gli uomini che scelgono di varcare il confine e non tornare indietro, evidentemente disposti ad abbandonare ogni cosa pur di vivere di quell'eterno incanto. Ma gli altri, troppo legati alle umane cose, non possono tollerare la magia, che stravolge ogni piano mortale, ogni progetto concreto.
Alveric e Lirazel rappresentano due opposte visioni. Appartengono a due culture differenti, a due mondi che si contraddicono a vicenda. Il mondo terrestre infatti non è mai raggiunto dalle armonie elfiche, e nel mondo degli elfi sono del tutto ignote le cose unane. I due personaggi sono affascinati dal mondo dell'altro, senza riuscire ad integrarvisi perfettamente. Dopo essersi resi conto di non riuscire a vivere nella quotidianità in un mondo che non capiscono, cercano di far entrare l'altro nel proprio mondo, una soluzione che sembra non trovare una concreta attuazione.
Alvaric e Lirazel costituiscono due antipodi inconciliabili, ed il figlio Orione racchiude in sé questo dualismo, infatti ha un'anima senza pace: appartiene al mondo terrestre ma ode perennemente il richiamo dei corni elfici, e non riesce a sentirsi davvero a casa in nessun luogo.
Con questa metafora fantastica, l'autore sembra suggerire che l'unione tra due persone tanto diverse è possibile solo nel vasto territorio dell'immaginazione, poiché l'amore non è un ponte sufficientemente resistente da non crollare sotto le intemperie delle difficoltà del tempo.
Il romanzo è ambientato in un'epoca sospesa, antica ma sempre attuale, perché eterna. Dunsany cerca, con le proprie parole, di creare per il lettore l'atmosfera e la visione dell'eternità. Il ritmo della storia è lento, la narrazione ha i toni di una fiaba antica, narrata davanti al camino.
L'autore si rivolge, come un cantastorie, direttamente al lettore, instaurando con lui un dialogo deliziosamente metaletterario. L'ironia vagamente amara ricorda Andersen e la spietatezza di certi frammenti rammenta invece i passi più intensi dei fratelli Grimm.
La prosa di Dunsany si caratterizza per una cura estrema nei confronti dei dettagli, specialmente quelli della natura. I movimenti degli animali, come conigli, lepri e volpi, sono descritti con precisione e attenzione tali che sembra di vederli muoversi nell'erba verde, di osservare le eleganti corse dei cervi e le foglie che oscillano nel vento.
Quando descrive la meravigliosa terra elfica, Dunsany usa parole alla portata del linguaggio umano, che si percepiscono incapaci di raggiungere lo scopo, limitate, per stessa ammissione dell'autore, per una descrizione così pretenziosa. Egli tuttavia, nella prefazione, dichiara che non intende scoraggiare il lettore, sommergendolo con uno scenario difficile da immaginare, ma assicura di essere interessato soprattutto alle descrizioni del mondo conosciuto.
Spero che l’idea di qualche esotico paese suggerita dal titolo non scoraggi il lettore; infatti per quanto alcuni capitoli parlino della Terra degli Elfi, la massima parte non riguarda che i campi conosciuti da tutti, i comuni boschi inglesi, una valle e un villaggio qualunque, un buon trenta o trentacinque chilometri dai confini di Elflandia.
Dunsany, vuole descrivere il confine dell'invisibile, facendolo percepire vicino e distante, impalpabile eppure alla portata dell'uomo sognatore.
Infatti, quando Alvaric si reca per la prima volta ad Elflandia, guidato dal fiabesco sogno di sposare la fanciulla dell'altrove, non incontra troppe difficoltà. Invece, quando vi fa ritorno molti anni dopo, per riportare a palazzo Lirazel, mosso dall'egoismo di considerare la fanciulla magica quasi una sua proprietà, il confine diventerà sempre più lontano, nascosto ai suoi occhi resi ciechi perché guidati da sentimenti terreni e meno puri rispetto alla gioventù.
Quando Alveric si rese conto di aver perduto Elflandia, era già sera e aveva camminato per due giorni e due notti, allontanandosi da Erl. E per la seconda volta dormì all’addiaccio su quella pianura dalla quale Elflandia si era ritirata: e al tramonto il limite dell’orizzonte, a oriente, si stagliò chiaro contro il cielo di turchese, nero e cosparso di rocce, senza il minimo
indizio di Elflandia. E il crepuscolo si distese su tutte le cose, ma era un crepuscolo terrestre e non la densa barriera che Alveric conosceva e cercava e che segnava il confine con la terra incantata. E spuntarono le stelle ed erano quelle conosciute, e Alveric si coricò alla luce delle costellazioni che gli erano familiari. Si svegliò in un’alba senza canto di uccelli e molto fredda, al suono delle antiche voci sempre più fioche, come se lentamente svanissero lontano, come i sogni che si perdono nel loro mondo conchiuso.
Scoprire il finale di questa intrigante fiaba riuscirà a calarvi in una realtà narrativa lontana, fiabesca e sfuggente, dove nascono e vivono in eterno i sogni immortali degli uomini: un mondo al quale si può accedere solo grazie all'immaginazione.
Dunsany insegna che il mondo della fantasia è come Lirazel, una fanciulla di leggendaria bellezza, che dopo averla conosciuta è impossibile da dimenticare.
Amarla non è sufficiente per possederla, ma bisogna accettarla e vivere nel suo mondo per sempre.