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venerdì 30 ottobre 2020

Capitolo 9 ~ Dreamless boy

 
CAPITOLO 9 
 
La luna non si era ancora innalzata nel cielo quando Alessandro entrò nella sua camera da letto. Perciò, quando spense la luce, la sua camera piombò in un buio quasi assoluto. 
Scivolò silenziosamente nel letto, distendendosi sotto le coperte. Chiuse gli occhi, ma il sonno tardava ad arrivare. 
Alessandro iniziò a preoccuparsi. E se proprio quella notte il suo potere non si fosse manifestato, impedendogli di dimostrare al suo amico che i poteri che sosteneva di avere erano reali?
Sarebbe stata una coincidenza veramente sfortunata. 
Ma non accadde. Finalmente percepì il familiare torpore che precedeva il sonno avvolgergli le membra, e si sentì sprofondare verso il basso, come se affondasse in un mare in cui era dolce annegare. 
Quando aprì gli occhi, si ritrovò a fissare il proprio corpo addormentato, e il mondo sussurrante e sibilante della notte si dischiuse dinanzi a lui, solo spettatore di quello spettacolo unico. 
Lasciò la stanza con il proprio corpo addormentato, e attraversò le mura per uscire di casa. 
I lampioni gialli illuminavano stancamente le case e le strade, tingendo tutto il paesaggio di un blando colore dorato. Alessandro conosceva la strada che conduceva a casa del suo amico praticamente a memoria. La casa di Roberto era per lui quasi più nota della propria. Quando erano bambini giocavano sempre a casa sua, dal momento che, fra i due, era lui quello che aveva più fumetti, giochi e videogiochi. 
Avevano trascorso lunghissimi pomeriggi a divertirsi, a ridere, a volte a non fare nulla, a chiacchierare pigramente nel cortile guardando le nuvole, nelle limpide giornate d’estate. 
Sembrava essere trascorsa un’eternità, da allora.
Camminando, si accorse di passare accanto alla casa della ragazza bianca. No, non era più solo questo. Ora era Natalia, una nuova ragazza della sua classe, seduta al primo banco vicino a Matilde. 
Lei, la ragazza che sembrava albina ma non lo era, la ragazza che non voleva rivelare da dove veniva, che aveva lasciato che le altre le si presentassero, senza dire veramente nulla di sé. 
Desiderava ardentemente sapere di più su di lei, ma per il momento non le aveva ancora mai parlato. 
Passando davanti alla sua casa, fu colto dal desiderio di entrare e vederla di nuovo, ma doveva andare dal suo amico. E stava davvero per procedere, quando udì un canto. Era il canto della voce più delicata che avesse mai udito, una voce leggera e allo stesso tempo forte, un canto limpido come il cristallo. 
Era la sua voce, la voce di Natalia. 
Non riusciva a distinguere con precisione le parole, ma gli venne voglia di udirla più distintamente, di vederla. 
La notte era lunga, aveva tutto il tempo di andare dal suo amico più tardi. 
Così, senza indugiare oltre, oltrepassò il cancello come uno spettro e raggiunse il giardino. Lei era lì, seduta sull’altalena, lo sguardo perso nel vuoto. Si dava piccolissime spinte con le gambe, e l’altalena oscillava avanti e indietro. Non produceva il minimo suono. Era grande, di ferro, e faceva sembrare Natalia ancora più piccola e delicata di quanto non fosse in realtà. 
Era di nuovo vestita di bianco. Indossava una camicia da notte lunga sino alle ginocchia che le lasciava le gambe, magre e candide, scoperte.
Le mani erano appoggiate alle aste dell’altalena. Alessandro osservava rapito il suo viso. Un viso bello di una bellezza particolare, magica: il genere di viso che, dopo averlo osservato una volta, ti veniva voglia di riguardare, e ancora, e ancora, e ancora. 
Le ciglia e le sopracciglia erano bianchissime, sembrano coperte da minuscoli fiocchi di soffice neve. Le labbra erano pallide, dure, e sembravano ghiacciate. Finalmente, potendole stare così vicino, ebbe l’immenso privilegio di guardarla negli occhi. 
Le sue iridi erano quanto di più meraviglioso avesse mai visto. Sembravano grigie, ma avevano sfaccettature color malva, che rendevano il loro colore tendente al viola. 
Sembravano occhi capaci di trattenere la luce, risplendevano nel buio come due minuscole stelle. 
L’ombra le stava sempre attorno, si stendeva dietro di lei, e questo dava la vaga impressione che dietro la sua schiena si aprissero un paio di grandi ali nere. 
Dentro di sé, Alessandro la paragonò ad una fata di luce, con ali di tenebra. 
La canzone della ragazza parlava di stelle e silenzio, di una luce bella e lontana, irraggiungibile, e di una principessa che trascorreva la vita intera ad ammirarla, ricordando che una volta l’aveva avuta a portata di mano. 
Era una canzone che faceva pensare alle occasioni perdute, e rese Alessandro immensamente triste. 
Anche la melodia era malinconica, e al ritmo di quella musica lugubre e triste si muoveva l’ombra, dietro di lei. 
Eppure, per qualche ragione che non riusciva a spiegarsi, desiderava starla a sentire, e continuare a guardarla. 
La luna si alzò finalmente nel cielo, alta e piena, scivolò sui suoi capelli e illuminò la sua intera figura con la propria luce. Gli occhi di Alessandro si sgranarono dinanzi a tanta meraviglia. 
Natalia era bellissima. La ragazza più bella che avesse mai visto. 
Il canto terminò, e la ragazza tacque. Si mise le mani in grembo e si guardò attorno. Alessandro sapeva di dover andare via, ma era come se una forza misteriosa e magnetica lo attirasse verso di lei, impedendogli di allontanarsi. 
Forse, si disse, poteva restare per udirla cantare, solo una volta ancora.
Ma lei non cantò più. Sospirò invece, ed iniziò a parlare.
-Cara Alice – sussurrò – io non so quale sia stata la tua fine. Non so se tu sia ancora viva da qualche parte, o se sei morta. 
Vorrei tanto parlarti. Dal momento che non ci sei, può sembrare che questo mio desiderio non abbia senso. Ma se sei morte, ovunque sei le mie parole ti arriveranno, ne sono certa. Se invece sei viva, ciò che io spero, una misteriosa magia potrebbe portarti le mie parole. 
E allora come vedi sì, in ogni caso ha senso. – 
Parlava a voce tanto bassa che Alessandro si accosto a lei per udirla più da vicino. 
Non poté fare a meno di chiedersi chi fosse Alice, e perché Natalia non sapesse se era viva o morta. 
-Mi hanno chiamata pazza- continuò, con un leggero tremito nella voce – solo perché non volevo lasciar andare il tuo ricordo. È assurdo, vero? – 
Si guardò attorno. 
-Ti ricordi il nostro giardino? Era simile a questo. Tu eri la mia fata buona… io con te non avevo paura di nulla. Perché sei andata via, perché? – 
Una lacrima, un’unica lacrima le scivolò lungo la guancia destra, simile ad un fiume di ghiaccio. Quando Alessandro la vide, un grande dolore gli salì nel cuore, e desiderò confortarla, in qualche modo. 
Allungò le dita nell’aria, ma le ritrasse, timoroso. Poi le tese di nuovo verso di lei e infine le sfiorò la spalla destra. Sapeva che lei non poteva percepirlo, ma lui aveva bisogno di starle vicino. 
Non appena le sfiorò la pelle, vide delle immagini. 
Erano solo dei flashback, ma vividi come ricordi.
Una ragazza camminava lungo una strada. Aveva capelli biondi chiarissimi, agitati dal vento, un cappotto azzurro e una gonna celeste, stivaletti neri. 
Attorno a lei fluttuavano foglie di mille colori. Il cielo era plumbeo. Era una tiepida sera d’autunno. 
La ragazza alzava la testa dietro le spalle, sollevava una mano per salutare. 
Poi, lentamente, voltava l’angolo sino a scomparire, insieme all’ultima luce del tramonto. 
Dopo quell’immagine muta e vivida ne comparve un’altra ancora, una stanza bianca, silenziosa come un grido. 
Alessandro, scioccato, tolse la mano dalla spalla di Natalia. E lei si portò la mani proprio lì, dove lui l’aveva sfiorata. 
-C’è qualcuno? – domandò, sospettosa e spaventata, guardandosi intorno. 
Scese dall’altalena. Alessandro non osava muoversi. La ragazza guardava fisso nella sua direzione. 
Non può vedermi, si ripeteva il ragazzo. Nessuno poteva vederlo. 
La ragazza procedette verso di lui, ma lo oltrepassò. E lui ebbe la certezza che neanche lei potesse vederlo. Ma, in qualche modo, sapeva che lui era lì. Come lo sapeva? Perché lo aveva sentito? 
Quando aveva sfiorato suo fratello, la prima notte in cui aveva scoperto cosa poteva fare, quando credeva ancora che le sue abilità fossero solo un sogno, Marco non aveva dato segno di percepirlo. 
Credeva che nessuno ne sarebbe stato in grado. Lei era speciale? Oppure era suo fratello a non accorgersi di nulla? 
Le possibilità erano molteplici, e avevano le stesse eventuali percentuali di probabilità. 
Natalia allungò la mano candida nella sua direzione. 
-C’è qualcuno? – ripeté, questa volta risoluta e senza paura, gli occhi viola che splendevano sotto la luna. 
Alessandro desiderava tanto sfiorarla, ma non aveva il coraggio di toccarla di nuovo, di vedere altre immagini strane, di risentire quell’angoscia. 
-Sei tu, Alice? Sei tu? – 
Chiese, con le labbra esangui che tremavano. 
Ecco perché non aveva paura! Sperava che quella presenza appartenesse alla misteriosa ragazza che l’aveva abbandonata.
Non poteva restare, o l’avrebbe illusa. 
Era puro spirito, e non aveva un cuore, perciò non aveva senso sentirlo battere. Eppure riusciva a sentirlo pulsare, ed era un suono così forte che temeva lei potesse quasi udirlo. 
Del resto era già riuscita a percepire la sua presenza, chi poteva dire cosa riusciva a sentire? 
Ritirò la mano, e con forza si allontanò da lei. Natalia si portò una mano al petto. L’ombra dietro di lei divenne più grande. 
Alessandro, dietro di lei, non sapeva cosa fare.

sabato 19 settembre 2020

Dreamless boy~ Capitolo 8

Natalia richiuse svelta la portiera dell’auto, chiudendosi dentro.
Ripensò agli eventi della giornata. Non poteva davvero lamentarsi. Le ragazze della sua classe sembravano gentili, e lei avrebbe tanto voluto mostrarsi più espansiva per non spegnere il loro entusiasmo, ma sapeva di non poterselo permettere. Doveva tenere sotto controllo le sue emozioni, per la propria sicurezza e quella altrui. Era snervante e per nulla facile, ma necessario.
Trasferirsi non era stata una cattiva idea, in fondo.
Qui nessuno sapeva chi era, cosa avesse fatto. Cosa era successo. 
Ma ripensare al suo passato era ancora infinitamente doloroso. 
-Allora Natalia, sono gentili le tue compagne? – le chiese sua madre, che occupava il posto di guida ed esibiva un sorriso da copione. 
Natalia sorrise appena. 
-Sì, hanno cercato subito di fare amicizia con me. Sono… simpatiche. Non mi aspettavo un’accoglienza così calorosa. – ammise. 
E soprattutto non mi aspettavo sguardi così. Curiosi e aperti. Non cattivi. Non gli sguardi di occhi che mi cercano solo per indicarmi e ridere. 
Lo pensò, ma non lo disse. 
-Dimmi, hanno fatto qualche domanda in particolare sul tuo aspetto? – 
-Naturalmente… credevano fossi albina- 
-Come tutti – rise sua madre. –Del resto, nemmeno i dottori, sin da quando eri bambina, riuscivano a capire come potessi avere un tale aspetto, senza esserlo – Ricordò. 
Anche Natalia rise, se lo ricordava. Sua madre divenne seria.
-Sai perché siamo qui. Nessuno sa chi sei. Non dire nulla di ciò che dicevi prima… - 
-Non lo farò – assicurò la ragazza. L’atmosfera allegra e leggera di un attimo prima si era fatta improvvisamente tetra. 
-…E non fare nulla di strano – Natalia annuì, cupa. 
Quello sarebbe stato meno facile. 
A volte accadevano a torno a lei avvenimenti bizzarri di cui era consapevole di essere la causa, ma che non sapeva come evitare. 
Qualche volta aveva provato a parlarne con sua madre. Ma lei, prevedibilmente, non aveva capito. Il suo sguardo si era fatto freddo, gelido, inespressivo, e Natalia aveva compreso che temeva un ritorno della sua presunta malattia. 
Subito dopo aveva detto che l’aveva presa in giro, era tutto uno scherzo, e lei si era rilassata. 
Ma quello scintillio gelido non era mai sparito del tutto dai suoi occhi, e a volte le sembrava di scorgerlo ancora. E la feriva più di qualunque altra cosa. 
Come biasimare le sue reazioni? Chiunque avrebbe reagito come lei. Natalia doveva rassegnarsi, non poteva condividere i suoi segreti con nessuno. Non più, almeno. L’unica persona con cui lo avrebbe fatto, ormai non c’era più. Lei la guardava sempre con affetto, lei l’avrebbe capita, lei non l’avrebbe mai chiamata pazza… una parola che adesso le faceva male sentirla pronunciare persino per scherzo. 
Da bambina, quando veniva additata dagli altri per il suo aspetto, osservata con curiosità, si sentiva a disagio. Ma lei le aveva spiegato che la curiosità è un sentimento normalissimo e umano, e che lei non
doveva essere intimidita dagli sguardi altrui, ma orgogliosa della sua diversità. Era come gli altri bambini, solo con qualcosa di più. Una bambina bianca come la neve. 
Quegli sguardi non l’avevano turbata più.
Ma poi avevano iniziato a guardarla non come si guarda qualcuno con un aspetto diverso, bensì con il compatimento riservato ad un malato di mente. 
Scrollò la testa. Non voleva ricordare quei momenti spiacevoli.
Aveva sempre saputo distinguere gli occhi stretti e sospetti di chi la riteneva pazza dalle occhiate incuriosite, con gli occhi sgranati, di chi la credeva albina, e la osservava perché era una rarità che non si vedeva tutti i giorni. 
Non conosceva altri sguardi, o meglio, a lei non erano mai stati rivolti, per molto tempo.
Almeno non fino a quel mattino, quando l’aveva fissata quel ragazzo dai lunghi capelli biondi. 
Lo aveva già visto, mentre passava sotto la sua finestra. Ma per la prima volta, quel mattino, i loro sguardi si erano incrociati, senza essere separati da un vetro o da una barriera.
E aveva avuto la strana, assurda impressione, di conoscerlo. Sapeva di non averlo mai visto prima, ma aveva provato una strana sensazione, come se lo avesse incontrato in una vita precedente, cento anni prima. Come se… lo riconoscesse, in un certo senso. 
Era assurdo, mai con nessuno aveva provato una simile sensazione. 
Anche lui aveva avuto la stessa impressione, quando si erano guardati? 
Lo sguardo nei suoi grandi occhi verdi non era stato di curiosità, né di pietà. Lui l’aveva guardata, e non aveva visto né l’albina, né la matta. 
L’aveva guardata come se le leggesse l’anima, come se sapesse chi era e cos’era. 
Ma ciò era impossibile, perché nemmeno lei lo sapeva.

venerdì 4 settembre 2020

Capitolo 7 ~ Dreamless boy


 
Quando Alessandro entrò in classe, quella mattina, si accorse subito del cambiamento. Il posto accanto a quello di Matilde, una sua compagna che sedeva al primo banco, non era vuoto come al solito, ma c’era una ragazza seduta. La riconobbe subito. 
Era la ragazza che aveva visto nel suo sogno. 
Vederla lì, nella sua classe, alla luce del sole, gli toglieva ogni dubbio riguardo i suoi poteri. I suoi capelli erano davvero color argento, come li aveva dipinti la luce della luna quella notte, fili biondi, quasi bianchi, e lisci. Le contornavano il viso, e una folta frangetta le finiva sin sugli occhi, dandole un’aria perennemente corrucciata e un po’ infantile. 
Gli occhi. 
Ora che poteva vederli aperti, si rese conto che erano di un colore molto chiaro. Da lontano non riusciva a distinguerli bene, ma sembravano riflettere la luce in maniera unica. 
Anche le ciglia, le sopracciglia, la sua pelle. Tutto era candido, in lei.
Anche i suoi vestiti, erano tutti bianchi. Nessuno, al suo posto, li avrebbe indossati. Qual era il suo intento? Provocare, giocando con il suo aspetto?
Non aveva mai visto una ragazza così. Cosa aveva? Perché era così… così bianca? 
In un istante, capì. Doveva essere albina. Non era brutta. Era bella, ma di una bellezza fragile, delicata. Somigliava ad una fata appena uscita dal suo nascondiglio fra le foglie, che guardava tutto e tutti con diffidenza, chiedendosi se fidarsi o meno degli uomini. 
Mentre la guardava, si rese conto che anche lei lo stava fissando. I suoi occhi sembravano senza espressione, due laghi ghiacciati. 
Guardandola, Alessandro provò di nuovo la sensazione che aveva provato la prima volta, il giorno prima, quando l’aveva vista dietro il vetro della finestra: quello strano presentimento di conoscerla, sebbene fosse sicuro, praticamente certo di non averla mai vista, e si sentiva travolto da strane sensazioni. Un misto di attrazione e curiosità, sentimenti che non aveva mai provato per nessuno. 
Si chiese se lei provasse la stessa cosa, se avesse l’impressione di conoscerlo. 
Quando Roberto gli tamburellò la spalla con un dito si rese conto di essersi fermato per alcuni istanti a guardarla, e con imbarazzo corse a sedersi. 
Smise di guardarla, ma continuava a sentire il peso di quegli occhi, quello sguardo severo che gli attraversava la schiena. 
-Cosa ti è successo? – gli chiese il suo amico. Sembravi pietrificato, mentre guardavi quella ragazza. – 
Alessandro cercò di spiegarsi a parole, ma si accorse di non esserne in grado. Come spiegargli che l’aveva vista il giorno prima, e la notte precedente, mentre dormiva? Come fargli capire cosa sentiva, quella sensazione di conoscerla da sempre? 
-E’ per il suo aspetto insolito, non è vero? E’ albina, è ovvio. – 
-Non avevo mai visto una ragazza albina – si giustificò lui. 
-Nemmeno io – disse Roberto – ma non credo che avresti dovuto fissarla in quel modo, è scortese. Se io fossi al suo posto, non mi farebbe piacere essere guardato in quel modo. – 
Concluse, rimproverandolo, iniziando a trarre dallo zaino penne e quaderni, con calma. 
-Non la fissavo per il suo aspetto, in realtà. – si passò una mano su una guancia. –Cioè, indubbiamente è particolare, ma non la guardavo solo per questo. – 
-E allora perché? – Roberto avrebbe fatto volentieri una battuta sulla freccia di cupido che finalmente aveva colpito anche lui, il frigido biondo che sembrava intoccabile dal nobile sentimento, ma si trattenne dinanzi all’espressione seria dell’amico. 
Quello non era lo sguardo di un ragazzo incantato da una bella ragazza. E poi conosceva Alessandro da tanti anni. Sapeva che, se c’era una sola persona che non si sarebbe mai innamorata a prima vista, quella persona era lui. 
Era troppo razionale per una cosa del genere. 
Questo non fece però che aumentare la sua curiosità. 
-Allora? Perché la fissavi in quel modo? – 
Alessandro abbassò la voce e si guardò attorno con circospezione, per accertarsi che nessuno lo stesse ascoltando. 
-L’ho vista, stanotte. – 
Inizialmente, Roberto non capì a cosa si riferisse. Un attimo dopo, però, gli tornarono alla mente i racconti strani dell’amico, riguardo al suo sogno in cui aveva vagato con lo spirito. 
-Aspetta, non starai parlando ancora di quella cosa, il sogno del tuo spirito, che può vagare dove vuole? – 
Alessandro annuì, seriamente. 
-E’ già successo due volte. Due volte, Roberto! E ho visto cose reali! Non si tratta di sogni… è tutto vero! – 
Roberto scosse la testa, scettico.
-Chi lo avrebbe mai detto? Tu, che fra di noi sei sempre stato quello realista, il ragazzo con la testa sulle spalle, che ammattisce in questo modo? Si lascia influenzare da un paio di sogni? Non mi dirai davvero che credi a simili sciocchezze! – 
Alessandro fece per protestare, ma Roberto continuò, senza lasciarlo parlare. 
-Mi rendo conto che sognare è bello. Soprattutto per te, dal momento che è la prima volta. Ma vedi, anche se alcuni sogni sono magnifici, per loro stessa natura non sono reali, non lo faranno mai… anche quelli più belli. – 
Alessandro rimase in silenzio. 
-Anche tu vorresti che i tuoi sogni diventassero realtà? – 
-Sì – sorrise, fra sé e sé – soprattutto uno… - 
-Davvero? Quale? – 
Roberto distolse lo sguardo. 
-Lascia perdere, è quasi impossibile. Comunque… nessun sogno è reale. Devi smetterla di credere che lo sia. Ti farai solo del male! – 
Alessandro allargò le braccia. 
-Sai che non esiste nessuno più cinico di me. Non credo a niente, se non possiedo prove concrete. Infatti sospetto di avere delle capacità, perché possiedo delle prove. –
-Ad esempio? – 
-Ad esempio il messaggio di mio fratello! Oppure l’aver visto quella ragazza! – 
Roberto scosse la testa, sempre più incredulo. Alessandro lo capiva. Anche lui, al suo posto, avrebbe reagito allo stesso modo. Lo sapeva, eppure per qualche ragione il suo atteggiamento lo feriva. 
Evidentemente il suo viso assunse un’espressione delusa, perché Roberto sembrò notare quanto ci era rimasto male. 
Non poteva sopportare di vedere il suo migliore amico in quello stato. Era sempre stato per lui una certezza, come il faro in un porto per i pescatori sballottati dalle onde selvagge. 
Non poteva lasciarlo impazzire senza far nulla. Doveva trovare una soluzione.
Schioccò le dita, perché gli era venuta un’idea. Alessandro lo guardò con interesse. -Non puoi pretendere che io ti creda ciecamente. Però, se io avessi una prova inconfutabile, innegabile, evidente, non potrei non credere alle tue parole, per quanto ora mi sembrino assurde. È ciò che faresti tu, no? A furia di camminare con un amico zoppo… - disse, strizzando l’occhio, accennando ad un famoso detto popolare.
…si impara a zoppicare, concluse mentalmente Alessandro. E ad andare con un sognatore? Si impara a sognare? L’idea lo fece ridere.
-Allora, che prova hai pensato? – 
-Semplice. Sai dove abito. Lascerò un libro aperto sul mio comodino, questa notte, e tu mi dirai quale libro ho scelto, e la pagina a cui era aperto. Se sei davvero in grado di fare ciò che sostieni, una cosa simile non ti sarà per nulla difficile – 
Alessandro annuì. Sarebbe stato semplicissimo. –A quel punto mi crederai? – 
-Certo- 
Alessandro gli credeva. Una delle migliori qualità del suo amico era la lealtà. Dunque gli strinse la mano. 
Subito dopo arrivò in classe l’insegnante di italiano. Era la stessa da quattro anni, e conosceva bene i suoi studenti. E sembrava conoscere bene anche la nuova arrivata. 
-Brava Natalia, vedo che ti sei già sistemata dove ti avevo detto – 
La ragazza annuì. 
-Gli altri ragazzi ti hanno accolta bene? Ti piace la nostra classe? – 
Lei annuì e guardò la sua compagna di banco.
-Stavamo già facendo amicizia – assicurò Matilde, con un gran sorriso. Era veramente contenta di non essere più sola, e quella nuova ragazza le sembrava già simpatica.
-Bene- l’insegnante era soddisfatta. 
Si sedette, e guardando tutta la classe, rese ufficiale l’arrivo della ragazza. 
-Come avete potuto vedere, d’ora in poi avremo con noi una nuova studentessa. Si chiama Natalia Angela Sferrati. – 
Quel nome le uscì delicatamente dalle labbra, come una cosa preziosa. 
Alessandro si voltò verso la ragazza.
Natalia. 
Dunque, era quello il suo nome. Le stava bene. Non appena si sentì chiamare, lei si sedette più dritta sulla sedia. I lisci capelli sembravano oscillare ad ogni suo più piccolo movimento. Era consapevole di avere su di sé gli occhi dell’intera classe, Alessandro ne era certo, ma non sembrava che la cosa la turbasse.
-Natalia, dicci qualcosa di te – la invitò l’insegnante, che non riusciva a nascondere uno sguardo di sorpresa. 
Evidentemente neanche lei aveva visto molte persone albine, nella sua vita. 
-Cosa dovrei dire? – domandò lei, freddamente. 
-Da dove vieni? – 
-Da un altro liceo scientifico – era chiaramente intenzionata a dare poche informazioni sul suo conto. 
Poi, come se si fosse improvvisamente ricordata di un consiglio, aggiunse, con un sorriso un po’ forzato: -Spero di trovarmi bene- 
La professoressa sorrise, prima di fare l’appello. 
-Accadrà certamente, signorina. – 
Per la prima volta, Alessandro aveva udito la sua voce. Era un po’ diversa da quella che aveva udito quando aveva toccato le ombre. 
Era delicata come un soffio di vento, forse un po’ inespressiva, come il gelo. 
Sembrava una voce assolutamente adatta a lei. Era limpida e vibrante, quasi come un canto. 
Persino l’insegnante sembrava colpita dalla sua voce, così dolce e ferma, ma non le chiese altro ed iniziò tranquillamente la sua lezione. 
Durante l’intervallo le ragazze della classe raggiunsero la ragazza, e la circondarono. Erano curiose, volevano sapere di più su di lei, ma avevano l’espressione strana di chi temeva di essere indiscreto. 
Le fecero alcune domande. Natalia non si sottraeva a nessuna di esse, anche se non rispondeva mai con trasporto, e a volte non forniva risposte del tutto esaustive. Sembrava cercasse di mantenersi sulle sue, ma il suo era chiaramente un atteggiamento forzato, probabilmente autoimposto dall’imbarazzo.
Alessandro non si avvicinò perché non voleva essere di troppo, ma non poté fare a meno di ascoltare. 
Una delle prime domande che le rivolsero riguardava il suo aspetto. Tutti volevano sapere se fosse albina.
Natalia aveva l’aria di chi aveva dovuto rispondere a quella domanda almeno un centinaio di volte. 
-No, non lo sono. Gli albini hanno numerosi problemi alla pelle e agli occhi, sono molto delicati… io no. Semplicemente, sono nata così. – 
Le ragazze erano sorprese. 
-Che strano – commentò una ragazza con i riccioli.
-Lo so… - sorrise lei, sorniona. 
Alessandro si sentì uno stupido. Anche lui e Roberto avevano creduto che fosse albina. 
-Da dove vieni? – 
Glielo chiesero ancora, come aveva fatto l’insegnante. Ma anche questa volta lei evitò di rispondere, lasciando intendere- accompagnando le parole con un sorriso dolce ma fermo - che su quel punto non avrebbe detto nulla. 
Le ragazze furono gentili con lei, cercarono di metterla a suo agio, le facevano complimenti e si presentavano. Natalia sorrideva a tutte, cordialmente, ma dopo un po’ assunse un’aria stanca, l’aria di chi si sente fuori posto. Alla fine delle lezioni fu l’ultima ad uscire, rivolgendo un saluto ad ogni ragazza che le si era presentata. 
Qualcuno era venuto a prenderla in auto. Alessandro la vide da lontano entrare nell’automobile. La guardò sparire, la chioma chiara che splendeva come ghiaccio al sole dietro la sua schiena. 
-E’ molto strana – commentò Roberto, avvicinandosi a lui.
-La si potrebbe quasi definire graziosa – aggiunse – se non avesse quello sguardo così inquietante. È come se avesse paura di qualcuno, o di qualcosa, e fosse sempre in allerta. Tu cosa pensi? – 
Alessandro ci pensò su. 
Natalia, la ragazza dai capelli chiarissimi e la pelle candida come neve, che giocava con la sua diversità vestendosi di bianco, aveva dichiarato di essere normale. Ma non poteva esserlo. 
Le altre ragazze erano fatte di carne e di sangue, legate alla terra. Lei invece era fatta di nuvole e aria, non apparteneva al loro mondo. 
Voleva spiegare tutte queste cose ad Roberto, ma non avrebbe saputo come fare, quali parole usare. Per cui si limitò a ripetere che era proprio lei, la ragazza che aveva visto in quella casa. Gli raccontò dell’ombra, e delle voci delle piante e delle scie colorate. 
-Crederò quando superai la prova che abbiamo stabilito – dichiarò il suo amico, strizzandogli l’occhio. 
-Stanotte sapremo la verità- concluse, in tono plateale. 
Cercava di scherzare, di dissimulare il brivido che gli percorreva la schiena quando Alessandro gli parlava delle sue strane capacità. Perché era assurdo, non era per niente normale, e una parte di lui sperava che si sbagliasse, che non fosse vero, che fosse il solito Alessandro, quello che conosceva da anni, nulla di meno e nulla di più. 
Alessandro però, in cuor suo, conosceva già la verità. Dopo due notti, ormai non aveva più dubbi. 
E Natalia, in qualche modo, era legata a questo suo segreto. Era lei, lei che gli aveva tolto ogni dubbio.
 
 
 

venerdì 24 luglio 2020

Capitolo 6 ~ Dreamless boy


Verso sera, poco dopo che i suoi umani si erano ritirati nelle loro stanze da letto, Reginald era sgattaiolato fuori casa, nella notte, e aveva iniziato a percorrere a passo svelto le strade deserte del paese.
Le sue zampe non facevano rumore sul selciato, ed era molto fiero dei suoi passi silenziosi. 
Così come era fiero del suo pelo fulvo, con quel ciuffo bianco sul petto che gli donava un tocco di indubbia eleganza e delle sue orecchie, né volgarmente grandi, né ridicolmente piccole. 
Era infine orgoglioso della sua coda, soffice e dal pelo lungo, che amava tenere ben dritta, mentre camminava. 
Si fermò davanti ad una pozza di fango. Arricciò il musetto, schizzinoso, e accerchiò lo sporco ostacolo. 
Zampettò velocemente sul ponte e attraversò la piazza. Qualcuno si voltò a guardarlo, ma senza curarsene troppo: un gatto che va da qualche parte è un evento troppo banale per prestarvi attenzione. 
Reginald lo sapeva, ed era un bene che gli umani non lo intralciassero. 
Scorse una serie di gradini, che procedevano in discesa, a destra di un piccolo ponte. Procedette in quella direzione, e giunse alla riva di un fiume, dove l’erbetta era sottile, fresca e bagnata. 
Si sedette molto regalmente, sistemandosi la coda sulle zampette, e si leccò il muso. 
Iniziò a miagolare forte, e poi si mise in attesa. Ma non dovette attendere a lungo. 
-Buonasera, Reginald – 
Reginald voltò la testa, incrociando lo sguardo madreperlaceo di un grosso felino grigio, con la punta della coda nera. 
-Buonasera anche a te, Nicodemo – 
Subito dopo di lui iniziarono ad arrivare altri felini. 
I fratelli Tenebra ed Eclissi, Esmeralda, Diana, e… 
-Gregor – borbottò Reginald. 
-Dov’è? Dove si è cacciato, stavolta? – 
Un gatto grosso e rossiccio arrivò in tutta fretta, arrestandosi di colpo vicino al compagno. 
-Eccomi, eccomi! – 
-Sei il solito ritardatario – sbuffò Diana, scuotendo la testa. 
Lui abbassò le orecchie, a mo’ di scusa. 
-Certo che ne è passato, di tempo, dalla nostra ultima riunione – osservò Nicodemo.
-Già – convenne Reginald – non sono state molte le occasioni per incontrarci, negli ultimi anni – 
-Ma sulla luna era diverso, ricordate? – intervenne Gregor, sognante. 
-Lì stavamo sempre insieme, nel nostro palazzo. Niente e nessuno poteva separare noi, i sette guardiani, i membri del consiglio della luna. Eravamo di fondamentale aiuto per la nostra regina. Ha sempre affidato a noi i compiti più importanti. – 
-Anche questa missione, in effetti, è importante. Ne eravamo consapevoli dall’inizio, ma vivere con gli umani è stato più difficile di quanto ci aspettassimo. – si lagnò la gatta bianca, Esmeralda, lisciandosi la coda, in cui era incastrato un grosso anello d’oro. 
–Non trovate anche voi? – 
-A proposito, Neve, la nostra missione sta per compiersi, avremo ancora bisogno del Cuore di Luna – disse Gregor, alludendo all’anello che la gatta aveva nella coda. 
-Tu non avrai niente da me, Gregor, se mi chiamerai solo un’altra volta con il nome che mi hanno dato i miei umani – 
Gregor ridacchiò. 
-Perdonami, è stato più forte di me – 
Reginald lo incenerì con lo sguardo. Aveva un debole per la bella gatta bianca, anche se non glielo aveva mai confessato apertamente, e forse non ne avrebbe mai trovato il coraggio. 
-A te piacerebbe se ti chiamassimo con il nome che ti hanno dato i tuoi umani? Cioè… Fiocco? – 
Gregor avrebbe voluto scomparire per la vergogna. 
-Gli umani sono ridicoli – disse Diana, intervenendo in sua difesa. 
-Ci trattano in un modo patetico. Come se noi fossimo delle creature inferiori! Credo che la colpa sia dei nostri cugini terrestri: li hanno abituati a trattare la nostra specie in questo modo. I loro costumi si sono notevolmente imbarbariti, lo avete notato? – domandò.
-Purtroppo sì – convenne Nicodemo. – Mangiano cibo freddo in scatola e si rotolano nella terra. Sconcertante. - 
-E’ vero! – convenne Gregor. – Io detesto particolarmente quando cercano di coinvolgermi in stupidi giochi. Con voi hanno mai provato a giocare con… il puntino rosso luminoso? Che strazio. Ci trattano proprio come dei comuni animali! – 
Eclissi sussultò. 
-Non nominatelo, vi prego – sussurrò Tenebra. –Eclissi ha il terrore del pallino rosso luminoso. –
Esmeralda sbatté le ciglia, con un’espressione interrogativa dipinta sul musetto. 
-Si tratta di uno stupido gioco, ma perché ne ha paura? – 
-Gli ricorda gli incubi che fa quando dorme. – spiegò, accarezzando con la zampa la schiena del fratello. 
Tutti tacquero. Sapevano bene che Eclissi era un membro molto particolare del consiglio. Spesso percepiva le cose prima che accadessero, come fugaci visioni, o sogni. A volte sentiva, quasi sulla sua pelle, la minaccia delle ombre. Eclissi era capace di recepire molto, a volte troppo, e ripetuti turbamenti lo avevano sconvolto in maniera definitiva. Spesso non riusciva ad esprimersi, ma il fratello riusciva sempre a comprenderlo.
Ormai, spesso non era presente a sé stesso. Ma era un consigliere valido, forse il più potente fra di loro, per questo nessuno osò fare commenti. 
-Deve essere difficile convivere con Eclissi – commentò Esmeralda, guardando Tenebra con uno sguardo tra il preoccupato e l’ammirato. 
-Farei di tutto per lui. È mio fratello. – Spiegò lui. 
Reginald provò una punta di gelosia nel notare lo sguardo di smeraldo, bellissimo e dolce, che Esmeralda aveva rivolto al gatto nero Tenebra. 
Tossicchiò, per richiamare l’attenzione dei presenti. 
-Compagni – esordì – È terribilmente frustrante vivere fra umani che non comprendono il nostro potenziale, tuttavia non ci siamo riuniti per discutere dei nostri crucci personali, per quanto possa essere piacevole. Ricordate il messaggio che vi ho fatto arrivare, grazie alla telepatia? – 
-Sì – rispose prontamente Esmeralda, gli occhi che le brillavano. –Era breve ma molto chiaro. “Il dormiente si è risvegliato”. – 
Reginald annuì. Lo guardò, piena di curiosità. 
-Quando è successo? – 
-Proprio ieri notte. Vi ho informati subito – 
Eclissi inclinò il capo e guardò suo fratello. Tenebra lo guardò e tradusse per lui. 
-Eclissi dice che lo ha percepito, quella notte stessa. Ha sentito l’energia che si muoveva. Sapeva che ci avresti convocati presto. –
-Ora dobbiamo evocare La regina, dobbiamo dirle tutto. Sarà felice di sapere che il suo erede finalmente è sveglio. – disse Esmeralda, decisa. 
-Quando la evocheremo? – 
-Appena sarà possibile. Durante la prima notte di luna piena, domani notte. Se nessuno di voi ha qualcosa da obiettare, io proporrei di riunirci qui domani, a mezzanotte. – 
Eclissi emise un soffio. Tremava, e guardava Tenebra con aria allarmata ed urgente.
Lui annuì.
-C’è qualcos’altro che Eclissi vorrebbe aggiungere. Si tratta di una cosa molto importante. – 
Tutti si voltarono nella sua direzione. 
-Ti ascoltiamo. – 
Tenebra assunse un’aria mortalmente seria, mentre Eclissi dietro di lui fissava il vuoto. Reginald si preoccupò seriamente per ciò che stava per udire. 
-Eclissi come ben sai ha il potere di percepire le energie. E ha percepito un’energia oscura. Intensa, devastante. Vicino alla casa dove alloggi tu, con il tuo umano. – 
-E cosa può voler dire? – chiese Diana, la gatta tigrata. 
I due fratelli si scambiarono una rapida occhiata.
-Non lo sappiamo. Ma abbiamo pensato fosse il caso di informarvi – 
-Può trattarsi di un umano depresso con pensieri distruttivi – ipotizzò Reginald. 
-Non sarebbe una bella cosa – commentò Diana. 
-No, di certo. Ma non ci riguarderebbe. – 
-Si tratta di un’energia troppo forte. Non può provenire da un essere umano qualsiasi. Non dovresti sottovalutare le percezioni di Eclissi, Reginald. – sussurrò Tenebra. 
-Non è necessario che ti ricordi cosa è successo l’ultima volta che lo hai fatto, vero? – 
Il maestoso felino a pelo lungo si irrigidì. 
L’ultima volta. No, non c’era bisogno che Tenebra gli ricordasse cosa era successo. 
Calò il silenzio nella piccola assemblea. La temperatura sembrò scendere di alcuni gradi.
-Non ho la minima intenzione di farlo. Ma al momento non abbiamo prove per affermare che si tratti di qualcosa di cui dobbiamo preoccuparci. -
-I baffi mi fremono la mattina presto, quando mi sveglio – aggiunse Nicodemo. –In genere non è un buon presentimento. – 
Reginald avvertì un brivido serpeggiargli lungo la schiena, fino alla punta della coda. 
Non sapeva cosa fare. Gli importava poco dei baffi del suo compagno, ma il ricordo dell’ultima volta in cui non aveva dato ascolto alle parole di Eclissi bruciava ancora, dentro di lui. 
-Staremo in allerta, tutti quanti. E ci terremo in contatto telepaticamente – intervenne Esmeralda, cavandolo dall’impaccio. Lui le rivolse uno sguardo grato.
Speriamo che basti, si disse. 

giovedì 16 luglio 2020

Capitolo 5 ~ Dreamless boy



Finalmente era di nuovo notte. 
Alessandro l’aveva attesa con l’impazienza di un bambino che attende il permesso di giocare con un giocattolo nuovo. 
Era ansioso di scoprire se i suoi poteri si fossero manifestati anche quella notte. 
Si distese fra e coperte. Era consapevole di doversi addormentare, ma per l’ansia il sonno sembrava sfuggirgli. 
Finalmente si sentì avvolgere da un calore tenebroso, e quando aprì gli occhi era solo puro spirito, al centro della stanza, ad osservare il proprio corpo che riposava con espressione tranquilla. 
Era successo ancora. 
Dunque era vero, era tutto vero! 
Si guardò attorno. La stanza aveva assunto un aspetto lugubre. Le ombre danzavano e sussurravano, proprio come la prima volta. Ma Alessandro non aveva paura. Quella visione del mondo lo rassicurava, come un velo di tenebra caldo e protettivo. Svelto, varcò la soglia della propria stanza e cominciò a vagare nei corridoi come uno spettro. Cercava il gatto. Aveva molte domande da porgli, ed era curioso di sentirlo parlare anche stavolta. 
Però non lo trovò da nessuna parte. Dopo aver vagato nella casa per un po’, si rese conto che doveva essere uscito. 


Decise che questa volta non sarebbe rimasto a camminare in casa sua, ad osservare i fumi colorati delle emozioni dei suoi genitori, di suo fratello o emessi dal proprio stesso corpo. Voleva uscire. Andare fuori. 
Si avvicinò alla porta di casa, e la varcò come se non ci fosse. 
Invece la porta c’era. Era lui, quello che non c’era. 
In un attimo si ritrovò dall’altra parte, fuori. 
Sicuramente faceva freddo: era una notte d’autunno, la temperatura a quell’ora avrebbe dovuto come minimo farlo rabbrividire, nel suo sottile pigiama. Ma Alessandro non percepiva il gelo. Non percepiva nulla, perché non era presente con il suo corpo, soltanto con lo spirito, e gli spiriti erano indifferenti alle temperature. 
Scese i gradini che dalla porta della sua casa portavano al cancello, poi attraversò anche quello constatando con quanta rapidità e facilità oltrepassava ogni ostacolo. 
Si compiaceva delle sue capacità. Sembrava un sogno, e la sera precedente aveva pensato proprio che lo fosse. Ma ora era sempre più sicuro che fosse reale. 
Si trovò in strada. Tutto era silenzioso. La notte era interrotta solo dalle luci acquose di lampioni gialli e stanchi. 
Il mondo, di notte, sembrava immobile. Dalle finestre delle case fuoriuscivano fumi di vari colori, che si innalzavano nel cielo spinte dal vento. Sembravano nuvole color arcobaleno. 
Il ragazzo sorrise. Era proprio come aveva pensato. Evidentemente quel mondo esisteva anche di giorno, ma solo di notte gli era concesso vederlo. 
Era strano che proprio lui fosse capace di edere qualcosa di tanto speciale. Perché? Non ne aveva idea. Tutto ciò che pensava, guardando quella strada deserta davanti a sé, era “libertà”. Ora era libero.
Quante volte aveva trascorso la notte insonne a guardare fuori dalla finestra le case buie e le strade deserte, impazzendo dal desiderio di correre la fuori e poter andare ovunque desiderasse, senza limiti? 
Si rese conto di aver atteso tutta la vita quel genere di libertà, e di non aver mai davvero sperato di ottenerla davvero, un giorno. 
I suoi pensieri furono interrotti da una musica lugubre e triste. Era come un grido, ma non il grido di un essere umano. Era un urlo sonoro, musicale, come il lamento di un’armonica insieme al pianto di un violino stonato, e allo stridore di un pianoforte rotto. 
Qualcosa, in quella musica, lo respingeva. 
E fu proprio per questo che il ragazzo, invece, desiderò conoscerne l’origine. 
Continuò a camminare lungo la strada, finché non arrivò lì dove la buia musica era più forte. 
Proveniva da un edificio circondato da un’aura nera molto estesa. Sembrava una nuvola di petrolio. I contorni non erano immobili, si muovevano come tentacoli, sembravano tentare disperatamente di acciuffare le stelle, per spegnerle. 
Era qualcosa di terribile da guardare, soprattutto immaginando la proporzione del dolore che poteva generare quella cosa. 
Alessandro si sentiva soddisfatto. Aveva avuto un’intuizione esatta, quel pomeriggio. Anche senza vederla, aveva percepito la presenza dell’aura nera. 
Cominciava a capire la logica dei suoi poteri. Per quanto andassero contro ogni logica, iniziava a comprendere il funzionamento delle sue nuove capacità. 
Si avvicinò alla tenebra, provò ad inserirvi una mano: ci riuscì. 
Quella cosa si poteva oltrepassare.
E Alessandro la oltrepassò, leggero, come se fosse fatto di niente. 
Si ritrovò in una casa. Seguì la strada di tenebra, salì le scale. Intorno a lui, le ombre sussurravano e lo indicavano. Il ragazzo si ritrovò dinanzi ad una porta chiusa. 
Ormai gli era chiaro che le porte non fossero un ostacolo, per lui, perciò era sicuro di poterla attraversare senza problemi. Ma, per la prima volta da quando possedeva quei poteri, lo travolse un senso di disagio devastante. 
Dall’altra parte della porta c’era qualcosa – o, più probabilmente qualcuno – che emanava quell’aura terribile e angosciante, quell’intensa energia oscura. 
Di chi o cosa poteva trattarsi? Doveva averne paura? 
Nulla musica, iniziò a distinguere delle voci. Sussurrate, pronunciate con voce bassissima, e confuse, come se tante bambine si confidassero segreti l’un l’altra, contemporaneamente. 
Toccava a me, non a lei.
Dove sei? 
Perché non mi credete? 
Sei pazza!
Tutti lo dicono! 
Non lo sono! Non lo sono! Non lo sono! 
L’ultima voce era urlata, come se ci fosse qualcuno all’interno della stanza che correva gridando quelle frasi. 
Alessandro decise di entrare. Chiuse gli occhi, si fece coraggio. Ed oltrepassò la porta. 
Si ritrovò in una piccola stanza alquanto spoglia. La luce della luna attraversava il vetro del balcone e illuminava la stanza permettendo ai suoi occhi, ormai abituati al buio, di scorgere con sufficiente nitidezza gli oggetti. 
Una scrivania, una sedia, alcuni scatoloni, un comodino, un letto. 
Il ragazzo non ebbe difficoltà a scoprire che l’energia nera proveniva dal letto, o meglio, dalla persona che vi dormiva.
Alessandro si avvicinò. Era una ragazza. Le ombre la circondavano come petali di un fiore nero ed oscillavano nell’aria tutt’intorno a lei. A tratti, quell’ombra sembrava viva, come un demone informe che non vuole abbandonare la propria preda e le vaga attorno, vegliandola giorno e notte. 
La ragazza era la stessa che aveva visto dietro la finestra, quel pomeriggio, immobile come se fosse stata finta, la stessa ragazza che non aveva risposto al suo saluto. 
Dalla strada non l’aveva potuta osservare bene, vista la distanza. Ma ora che ce l’aveva a pochi centimetri dagli occhi, il viso illuminava dalla luce lunare, poteva osservarne i lineamenti. 
Aveva un volto delicato e ovale, la sua pelle sembrava molto chiara, così come i lunghi capelli che le scivolavano sulle spalle. La luna li faceva risplendere come fili d’argento, ma Alessandro, a causa della scarsa luce, non riusciva a distinguerne il vero colore. Ogni cosa sembrava blu e argento. 
Naturalmente la ragazza dormiva, aveva gli occhi chiusi, e il ragazzo poté ammirare le sue lunghissime ciglia. 
La sua espressione era severa, le labbra tese e le sopracciglia leggermente corrucciate. 
Spinto da un impulso irrefrenabile, Alessandro tese una mano per sfiorarle una guancia. Molto probabilmente le sue dita avrebbero attraversato la sua pelle, lo sapeva, ma voleva provarci ugualmente. 
Avvicinò la mano a lei e i petali dall’ombra che circondavano la ragazza si misero in allarme. Il loro contorcersi si fece frenetico, e quelle strane forme scure si frapposero fra la mano di Alessandro e la ragazza. 
La sua mano sfiorò l’ombra nera ed udì nuovamente le voci, più forti e arrabbiate. 
Vattene! 
Andate via! 
Lasciatemi in pace! 
Via! Via! Via! 
Come scottato, Alessandro ritrasse la mano, e smise di udire le voci. Mentre le udiva, gli era sembrato di non riuscire a respirare, e non voleva udirle ancora, così arretrò. 
Ma le ombre lo seguivano, e lo costrinsero ad arretrare, ad uscire dalla stanza, a scendere le scale, a lasciare quella casa. 
Si ritrovò nel giardino, ampio e ricco di piante, con una grande altalena in ferro battuto nel mezzo. Intorno a sé, udiva tante voci sussurrate, sembravano le piccole voci delle piante. 
Chi è? 
Non lo sappiamo.
Cosa ci fa qui? 
Vuole farci del male? 
Ci strapperà le foglie?
Nel giardino, le ombre scure erano di meno. Solo alcune nuvolette scure, che oscillavano tranquille nell’aria, fra le piante. 
Sembravano meno arrabbiate dell’ombra che lo aveva respinto, così Alessandro si fece coraggio e le sfiorò. 
Questa volta non udì voci arrabbiate, ma un pianto sommesso, triste. 
E una frase ripetuta, come una preghiera.
Io ti sto aspettando. 
La voce era femminile, dolce. Poteva appartenere alla ragazza? Angosciato, diede un ultimo sguardo alla grande casa e decise di lasciare quel luogo. Tornò a camminare nella strada deserta, illuminata dalla luce dei lampioni, e scivolò dentro casa. 
Nell’aria volteggiavano scie di colore blu. Udì la voce di suo padre, che proponeva alla moglie di brindare perché aveva avuto una promozione al lavoro. 
La scia viola, invece, era più triste. 
Tutti i miei fiori sono appassiti! Gemeva. I miei bei fiori… 
Quella era la voce di sua madre. 
Alessandro seguì le scie, e vide che i suoi genitori giacevano nel letto, addormentati. Stavano sognando. 
Pensieroso, il ragazzo si diresse verso il soggiorno, iniziando a camminare avanti e indietro, come faceva sempre quando era tormentato da qualche pensiero. 
Doveva mettere insieme le informazioni che ora sapeva. 
La notte non dormiva, ma il suo spirito era libero di staccarsi dal corpo e udire le voci delle piante e i pensieri delle persone sveglie, udiva frasi spezzate provenienti dai sogni di chi dormiva, se sfiorava le strane scie colorate che emettevano
Quando era uno spirito poteva attraversare le pareti, e nessuno poteva vederlo, né percepirlo. 
Quando si era avvicinato a suo fratello, per esempio, lui non si era accorto della sua presenza. 
Per risvegliarsi, doveva ridistendersi sul suo corpo. Questo glielo aveva insegnato il fatto, e si era rivelato corretto. 
Sempre il gatto, poi, lo aveva definito “dormiente”, e gli aveva detto anche che si era appena risvegliato. 
In effetti, riconobbe che il gatto gli aveva dato l’impressione di conoscere molte cose sul suo conto. Dunque forse lui sarebbe stato in grado di rispondere ad alcune delle sue domande, come per esempio: perché era in grado di fare ciò che faceva? Perché lo aveva scoperto solo ora? ne era sempre stato capace, senza essersene mai accorto prima? 
Cos’altro aveva il potere di fare? Esistevano altre persone come lui? Erano riflessioni interessanti, ma senza frutto. Non portavano a niente. Però il gatto poteva dargli risposte. Lo cercò in tutta la casa. Niente. Non c’era prima che uscisse, ed ora non era ancora tornato. Doveva essere uscito per una passeggiata notturna. Lo avrebbe aspettato.
Rimase ad attenderlo veramente a lungo, ma non arrivò. Alessandro si costrinse a raggiungere il proprio corpo, nella sua stanza. Era addormentato, ed emanava numerose scie. 
Le toccò, ed udì le stesse domande che si era posto poco prima riguardo i suoi poteri, se tali si potevano definire. 
Del resto, erano quelli i suoi pensieri. Che altro si aspettava di udire? 
Guardò il proprio corpo assopito, e ripensò a quella ragazza che dormiva senza pace, circondata dalle ombre. L’angoscia nera che la circondava era talmente forte che, al confronto, le scie emanate dal suo corpo e da quello dei genitori erano veramente di intensità irrisoria. 
Come si poteva vivere con un dolore così grande? 
E quella ragazza era così giovane, probabilmente non era più grande di lui; quale dolore poteva mai portarsi dietro? 

domenica 5 luglio 2020

Dreamless boy ~ Capitolo 4


 
CAPITOLO 4 
 
Natalia e i suoi genitori erano arrivati nella nuova casa alle sei del mattino, quando il cielo era illuminato appena dalle prime luci dell’alba. 
Il viaggio era durato tutta la notte. Nel pomeriggio sarebbero arrivati i camion dei traslochi. Per il momento, con sé avevano portato ben poco. 
-Per poche ore ci arrangeremo – le aveva detto sua madre, guardandola, e Natalia le aveva sorriso di rimando. Appena sua madre si era voltata, aveva smesso di sorridere. 
Natalia era rimasta in quella che aveva scelto come la sua stanza, la camera più in alto della casa, con la scusa di non sentirsi troppo bene.
Non era del tutto falso. Natalia non stava bene. Capiva che i suoi genitori erano in buona fede, ma odiava il fatto che non avessero ma creduto in lei, che la ritenessero pazza. 
-Se solo tu fossi qui con me – aveva detto, a bassa voce – tu mi capiresti – 
Si era alzata il cappuccio della felpa bianca sin sulla testa, nel tentativo di proteggersi dal brivido che le aveva attraversato la schiena, nonostante fosse consapevole che il freddo non ne era la causa. 
Poi si era avvicinata alla finestra, con la mente attraversata da pensieri cupi. 
Era una giornata uggiosa. Una tipica giornata di settembre.
A quel punto, la gelida monotonia della strada grigia era stata interrotta dal passaggio di un ragazzo, che stringeva un bell’ombrello blu per ripararsi dalla pioggia. 
Il ragazzo non era andato avanti per la sua strada, come lei si aspettava. Si era bloccato, come se avesse udito – o percepito – qualcosa. 
Aveva alzato la testa, l’aveva guardata, e i loro occhi si erano incrociati. Per lungo tempo. 
Di lui, Natalia non era riuscita a scorgere molto, a causa della distanza. Riuscì solo a vedere che era biondo, e che i capelli gli arrivavano sotto le orecchie, come un caschetto. 
Tutto in lui suggeriva che avesse un’anima piena di luce, doveva essere una persona solare e curiosa, aperta.
Esattamente il contrario di ciò che era lei. O meglio, di ciò che era costretta ad essere, perché lei non aveva scelta. 
Poi, lui aveva fatto quel gesto, l’aveva salutata, sollevando una mano. 
Per un istante, quel gesto aveva sciolto il ghiaccio che c’era nel suo cuore, e aveva quasi pensato di rispondere al saluto. Ma non lo aveva fatto. Allontanarsi dalla finestra? Neppure, si sarebbe comportata da persona timida, quale lei non lo era. 
Era rimasta lì, finché lui non aveva ripreso a camminare, sparendo finalmente dalla sua vista. Natalia, tuttavia, non poté non domandarsi perché lui si fosse fermato, perché proprio davanti alla sua finestra, perché l’avesse guardata con una tale insistenza. 
Cominciò ad avvertire una profonda sensazione di gelo. Si portò una mano al petto. Provava quasi dolore. 
-Non può succedere. Non di nuovo – sussurrò. Svelta, si allontanò dalla finestra. 
Quella cosa non doveva ripetersi. 

venerdì 19 giugno 2020

Dreamless boy ~ Capitolo 3


Solo un sogno?



Roberto aveva notato che il suo amico Alessandro era alquanto taciturno quella mattina, in classe. Tuttavia non gli chiese niente. Lo conosceva bene, e sapeva che quando assumeva quell’espressione significava che era concentrato su pensieri contorti, pensieri che avrebbero dovuto condurlo ad una conclusione importante, e non amava essere interrotto proprio quando aveva quasi risolto ogni mistero. 
Però i ragionamenti di quella mattina lo avevano tenuto impegnato sin troppo, e Roberto detestava essere ignorato dal suo compagno di banco. 
Così, timidamente, gli poggiò una mano sulla spalla. 
-Tutto bene? Sembri svagato… - gli domandò, in un sussurro. 
Alessandro si ridestò dal suo coma. Si guardò attorno con la stessa espressione attonita di chi si chiede dove si trovi e perché. 
Era in classe, seduto al secondo banco della fila centrale, nel bel mezzo di una spiegazione di italiano che, per una volta, gli era impossibile seguire. Generalmente era il più attento di tutti, sempre uno studente modello, sempre razionale, sempre preso da tutto ciò che fosse pratico e concreto. La matematica, per esempio, o la fisica. Materie in cui non c’era bisogno di esprimere riflessioni personali. 
Due più due fa quattro, radice quadrata due. Così è sempre stato e così sarà sempre, amen. Nessuna opinione, nessun dubbio. Basta conoscere la formula giusta per non avere il minimo tentennamento neppure nell’esercizio più complicato. 
Alessandro era un ragazzo riflessivo, ma la sua mente era abituata a procedere per processi logici e razionali. 
Ora, invece, si stava distraendo nel bel mezzo di una lezione, perché non riusciva a togliersi dalla testa il ricordo di quanto era avvenuto quella assurda notte. 
Lui, il ragazzo che non aveva mai sognato, la prima volta che c’era riuscito aveva visto qualcosa di reale, aveva scoperto di potersi muovere nel buio senza essere visto, e di poter vedere non solo ciò che accadeva intorno a lui, ma soprattutto l’invisibile. Le emozioni delle persone. 
Assurdo! Si ripeteva, prendendosi la testa fra le mani. Nessuna di quelle cose aveva senso, non poteva accettarle come vere. Però, per quanto gli risultasse difficile crederci, come poteva negare di aver letto sul cellulare di suo fratello un messaggio identico a quello visto nel suo sogno? 
Se solo non lo avesse visto, avrebbe potuto catalogare quella strana notte come nulla di più anomalo di un sogno strano. 
Gli tornò in mente uno dei particolari più bizzarri del suo sogno. 
Ginger, il gatto. Ginger aveva parlato, Ginger era un gatto e nessun gatto parla. 
Ciò che lo inquietava di più era il fatto che, pensandoci, era innegabile che non fosse mai stato un felino comune. 
Non era un trovatello e non lo avevano adottato: semplicemente, una mattina si era fatto trovare dinanzi alla porta della loro casa, seduto sullo zerbino, fiero e con le orecchie dritte. Come se avesse in qualche modo scelto la sua nuova casa, e come se pretendesse di essere accolto.
Alessandro ricordava di averlo giudicato bello e regale. Ricordava proprio di averlo detto, di averne elogiato la bellezza quasi innaturale ed il folto pelo fulvo, e ricordò il felino che, a quei complimenti, aveva gonfiato il petto, compiaciuto. 
Come se avesse capito. 
C'erano state numerose occasioni in cui il suo gatto si era comportato in modo decisamente poco ferino, e aveva dimostrato di avere un intuito particolare per certe richieste. 
Nonostante i suoi comportamenti insoliti, che certamente lo avevano spesso indotto a pensare che fosse dotato di un’intelligenza inconsueta e al di sopra della media, mai aveva lontanamente pensato che… potesse parlare! 
E poi, se ne era capace, perché aveva atteso proprio quella notte per rivelare le proprie capacità? Perché solo con lui? E perché, quel mattino, si era comportato come se nulla fosse accaduto, mangiando il suo cibo con il solito garbo? 
Forse sto impazzendo, pensò Alessandro. 
E poi, da mente razionale qual era, pensò di doversi ricordare quella data, per poi contare i giorni che avrebbe impiegato ad annegare nella follia più totale. 
Poteva essere un esperimento interessante… 
-Alessandro? Sembri un po’ perso, oggi – commentò ancora Roberto, guardandolo con uno sguardo non più sorpreso di quello che avrebbe rivolto ad un tipo che se ne fosse andato in giro con i capelli verdi, o viola. 
Alessandro sospirò. 
-Se tu sapessi cosa è accaduto stanotte – bisbigliò, a disagio. 
-Cosa è successo? – domandò l’altro, curioso, inclinando il capo nella sua direzione. 
Roberto amava le storie, ed era molto curioso di conoscere il misterioso motivo di afflizione del suo amico, quel qualcosa che era riuscito a distrarlo per quasi tutta la durata della lezione. 
Alessandro però, giunto il fatidico momento di parlare, si sentì la gola secca.
Da dove incominciare? Non aveva un discorso ordinato in mente. Non poteva parlare in quel momento: se lo avesse fatto, avrebbe finito con il blaterare qualcosa di insensato su un gatto che parlava e suo fratello che litigava a telefono con la sua fidanzata. 
Un pasticcio di parole senza capo né coda, e senza senso.
No, non poteva parlare in quel momento, Roberto lo avrebbe scambiato per un matto – non lo era, ed era sicuro di non esserlo, o almeno non ancora – e poi l’insegnante stava spiegando. 
-All’intervallo ti spiegherò tutto. – promise, guardando dritto davanti a sé, come se desiderasse ascoltare davvero l’insegnante. Ma non ci riusciva, e sapeva che avrebbe trascorso anche il resto della lezione a riordinare i pensieri. 
Roberto si ritirò, leggermente deluso. Ma la procrastinazione delle spiegazioni non fece altro che aumentare la sua curiosità. 

L’intervallo arrivò prima di quanto Alessandro sperasse e così, quasi senza accorgersene, si ritrovò inchiodato al termosifone, con gli occhi di Roberto fissi su di sé, pieni di curiosità. Il ragazzo era interessato a comportarsi da bravo amico e a liberare Alessandro dal suo peso, ma questo non si decideva a spiccicare parola. 
-E’ difficile da spiegare. Non so se mi crederai. Se me lo raccontassi tu, io non ti crederei… lo farei con molta difficoltà, almeno – spiegò, imbarazzato, con le braccia incrociate sul petto. 
Roberto era sempre più curioso. 
-Provaci – lo sfidò. 
L’altro sospirò. 
-E va bene. Stanotte ho sognato. Ma credo non fosse un sogno. Io penso… penso piuttosto che il mio spirito sia capace di vagare mentre il corpo dorme, ed è capace di vedere cose che gli altri non vedono, e udire cose che gli altri non sentono. – 
Aveva unito le parole e tenuto gli occhi bassi. Finalmente li sollevò per incrociare gli occhi dell’amico. Come si aspettava, vi albergava uno sguardo più che perplesso. 
-E’ assurdo. Impossibile. – 
-Sembrava reale – 
-I sogni lo sembrano sempre. Tu naturalmente non sei un esperto in materia, ma lascia che te lo dica io – 
Alessandro annuì. Inizialmente aveva pensato che erano quelle le cose che desiderava sentirsi dire, sapeva che Roberto gli avrebbe risposto in quel modo. Ma, da un’altra parte… voleva sentirsi dire che era vero, che aveva ragione, che era speciale. In un certo senso, non sentirselo dire fu una delusione. 
Però del resto cosa poteva saperne, Roberto? Non era stato lui a vivere quell’esperienza. 
-Forse hai ragione – gli disse, semplicemente. Ma lo disse soltanto per porre fine alla discussione. In realtà, non credeva affatto che il suo amico fosse nel giusto. 

***

Tornando a casa, quel pomeriggio, Alessandro era ancora preso dai suoi pensieri. Stringeva saldamente nella mano destra un ombrello blu, per ripararsi dalla pioggia insistente. 
Intorno a lui, alberi nudi e silenziosi decoravano il paesaggio autunnale. Ogni cosa sembrava riflettere il grigio cupo del cielo. Tutto era immobile, come di pietra. 
Guardava la strada dritto davanti a sé, con espressione indifferente. Aveva appena imboccato il suo vicoletto, quando si bloccò. 

Angoscia. Dolore. Aiuto. Non ce la faccio, non ne posso più. 

Perché mi sento così? Si chiese. Non aveva alcuna ragione per provare simili sentimenti.
D’improvviso, ebbe un’illuminazione. 
Probabilmente stava accadendo la stessa cosa di quella notte, ossia qualcuno provava quelle emozioni, che si espandevano nell’aria come ombre, contaminando tutto ciò che toccavano. 
Però il dolore di suo fratello non era nulla, se paragonato a questo. Chi era capace di provare una sofferenza simile? 
Istintivamente sollevò la testa, scrutando le finestre dei palazzi alla sua destra. 
Alla finestra del secondo piano c’era qualcuno. 
Una ragazza. 
Immobile, stretta in una felpa di un colore chiaro, il cappuccio tirato fin sopra i capelli. 
Si era accorta di essere osservata, ma non per questo si allontanò dalla finestra. 
Neanche Alessandro si mosse. 
Era lei? Era quella ragazza, colei che soffriva in quel modo atroce? Perché? E chi era? Dal marciapiede non ne vedeva bene i lineamenti, per di più la pioggia gli offuscava la vista, ma era abbastanza sicuro di non averla mai vista. 
Per di più la casa in cui si trovava era stata disabitata per alcuni anni. In effetti, il ragazzo non aveva idea dell’arrivo dei nuovi inquilini. 
Doveva essere giunta in paese da poco, dedusse. 
Si rese conto che si stavano fissando già da un po’, lui e la ragazza col cappuccio, e pensò di alzare la mano destra, in cenno di saluto. 
La ragazza non ricambiò il gesto, e lui si sentì uno stupido. 
Abbassò la mano, se la mise in tasca, chinò la testa e riprese a camminare, svelto. Cosa gli era preso? Era chiaro che lei non lo aveva salutato: perché avrebbe dovuto? Non lo conosceva nemmeno. 
Ma allora perché ci era rimasto così male? 
Non sapeva spiegarselo. 
Ripensò al motivo per cui aveva incrociato il suo sguardo, ossia l’aver percepito tutti quei dolorosi sentimenti, forse suoi, forse no.
Ne era veramente capace, dunque? Riusciva davvero a percepire i sentimenti delle persone? 
Arrivò a casa quasi senza accorgersene. Depositò l’ombrello nel porta ombrelli e, prima di dirigersi al piano superiore, si accostò alla poltrona di Tibert, per carezzargli la testa. 
-Ciao, micetto- lo salutò, per studiarne la reazione. 
Il felino ricambiò le sue parole con uno sguardo cupo ed altezzoso, come a dirgli di non azzardarsi a chiamarlo “micetto” una seconda volta, se non voleva ritrovarsi con le dita della mano straccate a morsi.
Il ragazzo era sempre più turbato. Tibert, come si aspettava, non si comportava per niente come un gatto normale. Però non parlava più. Perché? 
Forse si stava lasciando suggestionare troppo, forse non aveva mai parlato, e dunque non doveva aspettarselo. Alessandro non voleva impazzire. Era disposto a credere che fosse tutto un’illusione, che non avesse nessun dono speciale. Ma sapeva cosa aveva sentito e percepito, nel sogno e poco prima, in strada, perciò la sua mente pragmatica necessitava di prove concrete davanti alle quali fosse impossibile dire “io non credo”. 
Un’espressione di decisione comparve sul suo viso. 
Se questa notte lo farò ancora, potrebbe voler dire che sono realmente capace di fare ciò che credo. Altrimenti capirò che si è trattato solo di un bel sogno, e non ci penserò mai più. 

mercoledì 10 giugno 2020

Dreamless boy~ Capitolo 2 ~ La ragazza di neve




Natalia guardava fuori dal finestrino dell’auto, la mano poggiata sul vetro, le dita allargate. 
Fuori era notte. Le tenebre avvolgevano la strada, e i lampioni illuminavano a chiazze il tragitto con la loro luce gialla, che sembrava stanca di funzionare. 
Alcuni lampioni erano fulminati, perciò spesso l’auto era costretta a percorri interi tratti in un buio che si sarebbe potuto definire assoluto, se non ci fosse stata la luce della luna, particolarmente intensa, ad illuminare il paesaggio. 
La vettura correva veloce, Natalia riusciva a percepire le fusa del motore e la musica dell’autoradio, suoni che l’avvolgevano ma che le parvero molto lontani.
Si rendeva conto di essere in movimento, ma aveva come l’impressione che qualcosa, dentro di lei, fosse immobile. 
-Sei felice, Natalia? – 
La ragazza non si curò di rispondere, consapevole che la sua interlocutrice non si sarebbe preoccupata della sua opinione. 
A parlare era stata una donna, in tono allegro. 
Sedeva davanti, sul posto del passeggero. 
Alla guida, un uomo dall’aria tranquilla. 
I suoi genitori. 
Natalia li guardò. E, come le era già capitato di pensare negli ultimi tempi, le parvero due estranei. 
Innanzitutto, non le assomigliavano per niente. Avevano la pelle bruna, non scura ma comunque non chiara, capelli scuri ed occhi scuri, alti e di corporazione robusta. Lei, invece era minuta, esile come lo stelo di un fiore, pallida come un cigno, gli occhi grigi quasi trasparenti, come specchi, e i capelli così biondi da sembrare bianchi.
Non era albina, non aveva nessun genere di problema legato alla pelle: semplicemente, era nata così. 
La differenza fisica evidente non era il solo motivo per cui, a volte, percepiva i suoi genitori come degli estranei: c’era un’altra ragione, più profonda. I suoi genitori non la capivano. Chiaramente quest’affermazione sarebbe stata liquidata come “lamentela adolescenziale” da qualsiasi persona avesse udito le sue proteste – se solo Natalia fosse stata quel tipo di ragazza che provava sollievo e piacere nel narrare le sciagure della propria vita a qualcun altro – ma in realtà non era così. 
Natalia pensava di non essere compresa perché era davvero così. I suoi genitori non la capivano, spesso non la ascoltavano e, le rare volte in cui lo facevano, non credevano alle sue parole. Era come parlare con il silenzio.
Era per quella ragione che Natalia ora si trovava lì, in quell’auto, a sfrecciare lungo le strade deserte nel cuore della notte. 
Perché aveva cominciato a dire delle cose, e i suoi genitori non le avevano creduto. 
Dichiarava di vedere cose… e ricordare persone… e udire suoni…secondo loro... Inesistenti.
Nessuno le credeva. Nessuno aveva voluto darle ascolto. 
Senza neanche rendersene conto, si era ritrovata in una stanza dalle pareti bianche con una luce accecante, vittima degli uomini vestiti di bianco, che erano decisi a farle affermare che lei non vedeva nulla, che loro avevano ragione. All’inizio, Natalia era stata ostinata, aveva perseverato e ripetuto dieci, cento, mille volte che lei vedeva cose che esistevano davvero. 
Poi, però, quando aveva finalmente compreso che se non voleva più tornare nelle stanze bianche, circondata da persone che volevano farle negare la verità, c’era una sola cosa che potesse fare. Assecondarli. 
Così, un giorno aveva apparentemente smesso di combattere. Aveva sorriso, e dichiarato di non vedere o sentire più nulla. 
Tutti sembravano felici. 
Gli uomini vestiti di bianco, i suoi genitori. Avevano smesso di chiamarla mentalmente instabile. Ma etichette come pazza, visionaria, folle, non si staccano facilmente, sono terribilmente resistenti. 
E tutti, nel suo quartiere, avevano iniziato ad additarla come tale. 
Le lanciavano occhiate ricolme di quelle emozioni catalogabili come compassione e pietà, e anche un po’ di malcelato divertimento, perché l’innato sadismo dell’essere umano spinge a sorridere delle sciagure altrui. 
Natalia era consapevole di tutto ciò che accadeva attorno a lei, ma fingeva di non accorgersene, fingeva che non avesse importanza, che non le facesse male. 
Invece i suoi genitori non riuscivano a sopportarlo. Avevano dunque deciso di trasferirsi altrove, di andare lontano dove nessuno fosse a conoscenza del passato della loro figlia. 
Per Natalia, quel viaggio improvviso era come una fuga. Ma da cosa, esattamente? Dalle persone, dai giudizi, dagli sguardi? 
Da una paura. 
Lei sapeva che loro, giudicandola ancora psicologicamente fragile, temessero una sua caduta nella depressione ed un suo conseguente terribile atto insensato dettato dalla disperazione.
Inutile specificare quanto Natalia trovasse terribilmente ridicolo tutto ciò. 
Il giorno in cui aveva dichiarato di non vedere né udire nulla, corrispondeva ad un’ammissione di colpa. Aveva praticamente ammesso di essere stata pazza. Ma lo aveva fatto unicamente perché si era resa conto di non avere altra scelta. 
In cuor suo, sapeva di non essere matta: poteva, un folle, avere la sua stessa mente lucida? No. Lei non era pazza. Tutto ciò che aveva sostenuto di ricordare, era realmente accaduto. Lo avrebbe tenuto per sé, un segreto celato per amore dei genitori e per impedire che gli altri la considerassero anormale. 
Ma in realtà non avrebbe mai lasciato andare i propri ricordi, nessuno aveva il potere di controllare la sua mente. Si sentiva come un guerriero prigioniero dell’esercito nemico che, privatosi della propria appariscente armatura, custodisce in realtà un coltello nascosto negli stivali. 
Rivolse gli occhi grigi alla scintillante luna, alta nel cuore della notte, altera e distante come una regina, che mira il suo popolo con freddo disinteresse.  
Per un istante, solo per un istante, desiderò essere una stella e vagare nell’universo. 
Lontana da tutto e tutti, sola per sempre. 










lunedì 1 giugno 2020

Dreamless boy~ Capitolo 1


IL RAGAZZO SENZA SOGNI


CAPITOLO 1

Per quanto ne sapeva Alessandro, non aveva mai sognato. 
Secondo Roberto, il suo migliore amico, ciò era semplicemente impossibile. Tutti sognano, e di sicuro lo faceva anche lui, semplicemente non lo ricordava. 
Alessandro sapeva, razionalmente, che l’amico aveva ragione. Ma in cuor suo non era mai riuscito a dare completamente credito a quella teoria perché, se in diciassette anni non aveva ricordato nessun sogno, non poteva essere casuale. 
Semplicemente, durante il sonno il suo cervello si spegneva, come bloccato, per poi riaccendersi al mattino. 
Nel frattempo, le tenebre più assolute regnavano nella sua mente, e svegliandosi aveva la terribile impressione di riemergere dall’oscurità, un buio privo di immagini, da un sonno che non era riposo, ma piuttosto un oblio simile alla morte. 
Da bambino aveva invidiato i suoi amici, che raccontavano affascinanti avventure vissute nel mondo onirico. Aveva l’impressione di perdersi qualcosa di bello, qualcosa di unico, come un videogioco in terza dimensione.
Per anni si era domandato cosa volesse dire vivere, seppure solo per un po’, in una realtà differente, terribile o paradisiaca, creata dalla sua mente. Un mondo dove nulla era impossibile, un luogo meraviglioso o inquietante nel quale ogni pensiero poteva diventare reale. 
Con il passare del tempo, aveva smesso di chiederselo, accettando la propria diversità. 
Ecco perché, anche quella notte, Alessandro aveva spento la luce, si era disteso sotto le coperte e si aspettava di essere avvolto dalla consueta- in fondo confortante- tenebra fino al mattino, certo che neppure quella notte Morfeo lo avrebbe sfiorato con un tocco che per lui era leggenda. 
Ma il destino si diverte a giocare con l’uomo come il gatto con il topo. O, come una misteriosa cartomante, si diletta a rimescolare fra i tarocchi le carte ormai note, per poi estrarne di nuove e cambiare totalmente ogni previsione sul futuro.
Quella notte il destino di Alessandro estrasse le sue carte. 
Infatti, per la prima volta, il ragazzo sognò. 
Intorno a lui era tutto buio. Era chiaramente notte, e lui si trovava in una stanza dove ogni luce era spenta…
Si guardò attorno, rendendosi conto che la stanza buia era proprio la sua! 
Era perplesso. Dov’erano i mondi lontani, gli universi paralleli? 
Forse non era un sogno, forse si era semplicemente svegliato. 
Si voltò verso il suo letto. Non era vuoto. 
-C’è qualcuno che dorme nel mio letto. Un ragazzo… e quel ragazzo… sono io! – esclamò, sorpreso. 
Era assurdo. Dunque, di sicuro stava dormendo. Chi mai, nella realtà, potrebbe guardarsi dormire? 
Bene, proprio come gli avevano detto i suoi amici, stava sperimentando una situazione impossibile da vivere nella realtà. Ecco, ora stava scoprendo anche lui cosa volesse dire sognare.
Ma era normale che si sentisse così consapevole di farlo?
Sentiva la sua mente così vigile, forse persino più sveglia e reattiva di quanto non fosse durante la veglia. 
Si guardò intorno più attentamente. Cercava di scorgere qualche significativo cambiamento nella rappresentazione mentale della propria camera, magari qualcosa di simbolico, ma non ne individuò nessuno. 
La sua camera gli sembrava in tutto e per tutto identica a come la ricordava. Probabilmente, una tale precisione nei dettagli era dovuta alla sua memoria. Sì, non c’era altra spiegazione.
“Forse ora accadrà qualcosa” si disse. E si mise in attesa. Non sapeva cosa aspettava. L’arrivo di qualcuno, un cambiamento di scenario, qualcosa, qualsiasi cosa che movimentasse la situazione.
Ma non accadde nulla. 
Aveva sognato, semplicemente di trovarsi in piedi nella sua camera a guardarsi dormire. Altro che avventure! 
Eppure percepiva che non era tutto uguale, qualcosa, nell’atmosfera, doveva essere diverso, ne era certo. 
Cercò di capire a cosa fosse dovuta quella sensazione, e dopo qualche istante se ne rese conto con perfetta lucidità. 
In quella stanza buia, le rassicuranti forme a cui era abituato erano spaventose, tetre, oscillavano come mostri silenziosi. Sì, proprio così: le ombre si muovevano, danzavano in modo macabro sul pavimento e lungo le pareti, ed iniziò anche ad udire voci sibilanti, indistinte, ed agghiaccianti sussurri. 
Nell’aria fluttuavano strane forme colorate, simili a lunghi nastri evanescenti. Anch’essi, come le ombre, oscillavano. 
Nella sua stanza ce n’erano vari, di un cupo color rosso scuro. 
Con lo sguardo ne seguì la forma sinuosa, cercando di capire da dove provenissero. 
Con stupore si rese conto che provenivano dalle sue labbra, che nel sonno erano semichiuse. 
Sollevò una mano, ed istintivamente allungò le dita verso quella flebile luce fluttuante.
Era calda. 
“Curioso” sussurrò una voce “sto sognando, sto sognando davvero.”
Un momento! Ma questi… 
“Non era mai accaduto, prima! Ma è davvero un sogno? Sembra tutto così strano e confuso…” 
-Questi sono i miei stessi pensieri! – esclamò, sorpreso. Quelle frasi gli si erano riversate nella mente, tutti insieme, come se tante copie di sé stesso parlassero nella sua testa contemporaneamente. 
Allontanò la mano, e le voci sparirono. Le sue dita, però, continuarono per un po’ a splendere del bagliore rossastro che aveva sfiorato. 
Meravigliato, osservò le punte delle sue dita. Le strofinò, ma la luce non scomparve. 
D’improvviso una strana malinconia, una profonda angoscia lo avvolse, prendendo possesso delle sue membra. 
Provò una sensazione di sofferenza acuta e terribile, come se non fosse mai stato felice in tutta la vita, o come se non potesse esserlo mai più. 
Aveva voglia di piangere, e lo avrebbe fatto davvero, se non avesse pensato razionalmente che non c’era nessuna ragione per cui dovesse sentirsi tanto infelice. 
Tuttavia, doveva esserci una spiegazione per quei sentimenti cupi e tristi.
Si accorse che il suo piede sfiorava una scia di fumo grigio. 
Proveniva dall’alto, dal piano superiore della casa. Si chinò per sfiorarlo.
“Non è giusto. Che cosa ho fatto? Mai sono stato tanto umiliato… perché? Perché adesso? Perché così?” 
Era la voce di suo fratello Nicola. Aveva venticinque anni e lavorava a Londra, ma quella settimana era a casa in vacanza, sarebbe partito il mattino seguente. 
Turbato, Alessandro seguì la scia su per le scale. Si fermò dinanzi alla porta chiusa di suo fratello. Come avrebbe fatto a spingerla e ad entrare? 
Tuttavia, il fumo grigio passava attraverso la porta e sembrava chiamarlo. Così il ragazzo, rispondendo ad impulsi a lui stesso ignoti, allungò la mano destra verso la porta. 
Al suo contatto, questa si fece trasparente e scomparve, permettendogli di passarvi attraverso. 
“Sono come il fantasma di un film dell’orrore” pensò Alessandro, non senza provare una certa eccitazione. 
Ora che si trovava nella stanza del fratello, poteva vedere che non dormiva. La lampada era accesa, e lui era lungo disteso sul suo letto, i bei ricci castani sparpagliati come foglie secche d’autunno, sul viso l’espressione di chi ha perso tutto. Dalle sue labbra e dal tutto il suo corpo si disperdeva nell’aria un’aura grigia che grondava di tristezza, e che si spargeva in ogni direzione, contagiando tutto quel che toccava. 
Cercando di evitare le forme grigie che si dispiegavano nell’aria simile a nubi temporalesche, il ragazzo si avvicinò al letto di suo fratello. 
Stava guardando lo schermo del cellulare, anche se era tardi qualcuno gli aveva appena inviato un messaggio, gettandolo nel più profondo sconforto. 
Alessandro provò a richiamare la sua attenzione, ma era come se fosse invisibile. 
“E’ un sogno sempre più strano” pensò, e inclinò la testa per leggere il messaggio. 
Proveniva da “angelo mio”, il nome con cui suo fratello aveva salvato il nome della fidanzata, Luisa. Era italiana. Si erano fidanzati all’età di ventidue anni, ma nell’ultimo anno i rapporti fra di loro si erano incrinati, e lei minacciava di lasciarlo circa ogni due mesi, soprattutto da quando lui si era dovuto trasferire all’estero, sei mesi prima. 
A giudicare dal messaggio, lei minacciava di lasciarlo di nuovo. E suo fratello era depresso per questa ragione, continuava a fissare lo schermo del cellulare con aria triste ed angosciata. 
Lo vide gettare il cellulare dall’altra parte del letto e sprofondare il viso nel cuscino. Le ombre grigie sussurravano in maniera cupa.
“La odio, come può farmi questo? Accusarmi che io non tenga a lei? Non mi capisce... No, non è vero che la odio, magari potessi odiarla, mi fa stare così male… vorrei solo che si rendesse conto di quanto mi fa soffrire, quanto!” 
Di nuovo, Alessandro si sentì contagiato dallo sconforto del fratello, emozione di cui l’aria era satura. 
Doveva andarsene, decise, e uscì dalla stanza. 
Scese i gradini lentamente, seguendo di tanto in tanto con la coda dell’occhio le ombre che sfrecciavano sui muri. Erano le ombre degli oggetti. Nel buio si muovevano, cercando di evitare le forme fluttuanti e colorate, e lui le percepiva. 
Alcune sussurravano, come creature vive, e il loro suono era simile al sibilo di un gruppo di serpenti. 
Ma Alessandro non aveva paura. 
Era tranquillo, come se avesse atteso tutta la vita per quell’unico istante, per quella meravigliosa notte solitaria. Non sapeva per quale ragione si sentisse talmente rilassato. 
“Forse perché so che è solo un sogno, e i sogni non sono reali” si disse. Soddisfatto della spiegazione che si era dato, continuò a vagare per la casa. Giunse in salotto e vide il grosso gatto rosso di casa, Tibert, muoversi verso di lui. 
Aveva un corpo, ma si muoveva silenziosamente come se, come Alessandro, non lo avesse. 
Il gatto si fermò e lo guardò, con i suoi occhi d’oro simili a scintillanti frammenti di madreperla. 
Che strano, pensò Alessandro. Il felino guardava proprio come se potesse vederlo. 
E poi, con stupore ancora maggiore, gli parlò. 
-Era da tanto che attendevo questo momento, umano – esclamò, drizzando le orecchie. 
Alessandro rimase pietrificato. 
-Che cosa vuol dire? E perché mi stai parlando? Come sei capace di parlare la mia lingua, Tibert? – 
Il felino parve annoiato. –Io, parlare la lingua degli uomini? Niente affatto! La comprendo, naturalmente. Ma non mi abbasso certamente a parlarla. Sei tu a capire la mia lingua, essere umano. L’hai sempre conosciuta. Se lo desideri, conosci tutte le lingue. – 
Il ragazzo era sempre più confuso. Voleva fare altre domande, ma poi si mise a ridere. 
-Ah, sono proprio uno sciocco, vero? Mi stavo comportando come se tutto questo fosse reale. Eppure mi avevano messo in guardia, i miei amici, dicendomi che nei sogni possono accadere le cose più strane! – 
Disse, rassicurandosi. 
Il gatto, sempre fermo ed immobile, lo guardò come se lo stupido fosse lui. 
-Voi umani siete davvero ottusi– commentò, con aria di superiorità, rivolto più a sé stesso che al ragazzo.
-Come potete essere ciechi persino dinanzi a ciò che avete sotto gli occhi? Non sei più un dormiente, ma non ti sei neanche svegliato del tutto, è evidente. Non puoi ancora capire. E non puoi ancora credere. – 
Alessandro, per qualche ragione, s’inquietò per quelle parole. 
-Non ti capisco. – 
-E cosa vuoi che m’importi? Non è mio dovere spiegarti. Non rientra nelle mie competenze, e non ne ho neppure voglia. – aggiunse bruscamente il felino. 
-Tanto non m’interessa – fece Alessandro, per tutta risposta – Tu non sei reale. Nulla di tutto questo lo è. Quando mi sveglierò, sarà tutto finito. – 
-Sei uno sciocco! – constatò il gatto, stizzito. 
-Onestamente, speravo che Lunaria avesse scelto un erede migliore di te. Ad ogni modo, per svegliarti, devi distenderti di nuovo sul tuo corpo. – 
-Ma, Tibert, nessuno mi ha mai detto… - 
-Te lo dico io! – sbottò il felino, con il tono di chi è abituato a non essere un sottoposto. 
-Non ti credo- il ragazzo incrociò le braccia sul petto, come un bambino capriccioso che si rifiuta di scendere dalle giostre. Il felino si allontanò, lentamente. 
-Dovrai farlo per forza. E’ il solo modo, e te ne accorgerai da te. A proposito, smetti di chiamarmi Tibert. Il mio vero nome è Reginald. –
Il gatto lo lasciò e lui rimase solo, fra le ombre sibilanti, avvolto dalle tenebre. 
Ormai solo, ripassò mentalmente quanto gli era accaduto dall’inizio del primo sogno della sua vita. 
Aveva visto sé stesso dormire, avevo ascoltato le ombre, aveva seguito dei nastri colorati emessi dalle labbra e dal corpo delle persone, aveva parlato con un gatto. Cosa poteva accadere, ancora? 
Oh, lo sapeva bene: poteva accadere che il gatto avesse ragione. 
Era possibile? Era davvero possibile che Reginald, il tranquillo e sornione gatto di casa, gli avesse appena parlato, come un essere umano? 
Si rimproverò. Lo stava facendo di nuovo! Doveva tenere bene a mente che nulla di ciò era reale. Era solo un sogno. Strano, particolare, ma nulla di più. 
Solo un sogno… 
Ne era proprio sicuro?
Si aggirò ancora un po’ senza meta nei corridoi bui della sua casa, camminandovi come se fosse la prima volta. Ogni cosa era spaventosa ma affascinante. 
Tornò nella sua stanza. Il suo sé stesso dormiva. Si avvicinò alla finestra. E rimase senza fiato. 
Una miriade di sfere luminose splendevano nell’aria come stelle, ma non erano stelle, e pulsavano come cuori bianchi, in mezzo alle scie di vari colori, uguali a quelle già viste in casa sua. 
Che meraviglia, pensò. E, subito dopo, si chiese perché tutto ciò che vedeva gli sembrasse così reale, così… vero. 
E se lo fosse? E se davvero solo tu potessi vedere tutto questo, e parlare con gli animali? 
Non pensarci. È un sogno. Ti sveglierai e tutto scomparirà, forse, non ricorderai nulla di tutto questo… 
Voltò il capo. Il suo sé stesso dormiva. 
Si avvicinò lentamente.
Voleva farlo davvero? Stava davvero per seguire il consiglio che un gatto gli aveva dato in un sogno? 
Ridicolo. Ma, tra l’altro, era un sogno, che male c’era? Forse, ogni sogno aveva le sue regole, e lui doveva rispettarle. 
Salì sul letto, si distese, perfettamente sul suo corpo e chiuse gli occhi, mentre nelle sue orecchie le ombre sibilavano: “il dormiente si sta risvegliando”. 
Alessandro spalancò gli occhi nelle tenebre, alzandosi a sedere sul letto. Si guardò attorno. La sua stanza era normale. Ogni ombra era immobile. Non si udiva neppure un sussurro. 
L’aria era priva di nastri colorati. 
Si alzò e avanzò sul pavimento. Era freddo e i suoi passi erano rumorosi e pesanti, umani. Era stato così piacevoli sentirsi leggero come l’aria, nel sogno! 
Si avvicinò alla finestra, scostò la tenda. 
Nessuna luce bianca. 
Quelle piccole stelle erano, dunque, mera invenzione della propria mente. 
È tutto falso. Era davvero soltanto un sogno. 
Il ragazzo provò una sensazione strana, si sentì come un bambino deluso, che all’apertura di un regalo scopre di non aver ricevuto il dono desiderato, come se quel modo di vedere gli appartenesse da sempre, come se lui fosse nato per vedere la realtà sotto 
Se ne tornò a letto. Aveva sperato di non ricordare, invece ricordava e ciò che aveva perso gli mancava. 
Per un attimo, aveva creduto davvero di essere diverso.
E invece era come tutti gli altri. Aveva sognato un’illusione che al mattino si era disciolta come neve al sole, come una promessa infranta, come una bugia. Che stupido!
Ma era stato così reale… sembrava così reale… 
Si avvolse su sé stesso, sforzandosi di dormire, ma non ci riuscì più. Rimase sveglio, sino al mattino. 
Quando scese per far colazione, suo fratello aveva un’aria depressa. Continuava a fissare il piatto dei cereali con sguardo vitreo, in attesa di un latitante appetito. 
-Che succede, Nicola? – gli chiese Alessandro, mettendogli premurosamente una mano sulla spalla. Il ragazzo trasse dalla tasca il cellulare, digitò qualcosa sullo schermo sensibile al tocco, poi glielo passò. 
-Leggi – disse, burbero. 
E Alessandro lesse. Per un attimo, avvertì un stretta allo stomaco.
Sullo schermo del cellulare di Nicola c’era lo stesso messaggio che aveva letto quella notte, in sogno. 
Come poteva trattarsi di un caso?
Persino le parole erano le stesse.