Natalia guardava fuori dal finestrino dell’auto, la mano poggiata sul vetro, le dita allargate.
Fuori era notte. Le tenebre avvolgevano la strada, e i lampioni illuminavano a chiazze il tragitto con la loro luce gialla, che sembrava stanca di funzionare.
Alcuni lampioni erano fulminati, perciò spesso l’auto era costretta a percorri interi tratti in un buio che si sarebbe potuto definire assoluto, se non ci fosse stata la luce della luna, particolarmente intensa, ad illuminare il paesaggio.
La vettura correva veloce, Natalia riusciva a percepire le fusa del motore e la musica dell’autoradio, suoni che l’avvolgevano ma che le parvero molto lontani.
Si rendeva conto di essere in movimento, ma aveva come l’impressione che qualcosa, dentro di lei, fosse immobile.
-Sei felice, Natalia? –
La ragazza non si curò di rispondere, consapevole che la sua interlocutrice non si sarebbe preoccupata della sua opinione.
A parlare era stata una donna, in tono allegro.
Sedeva davanti, sul posto del passeggero.
Alla guida, un uomo dall’aria tranquilla.
I suoi genitori.
Natalia li guardò. E, come le era già capitato di pensare negli ultimi tempi, le parvero due estranei.
Innanzitutto, non le assomigliavano per niente. Avevano la pelle bruna, non scura ma comunque non chiara, capelli scuri ed occhi scuri, alti e di corporazione robusta. Lei, invece era minuta, esile come lo stelo di un fiore, pallida come un cigno, gli occhi grigi quasi trasparenti, come specchi, e i capelli così biondi da sembrare bianchi.
Non era albina, non aveva nessun genere di problema legato alla pelle: semplicemente, era nata così.
La differenza fisica evidente non era il solo motivo per cui, a volte, percepiva i suoi genitori come degli estranei: c’era un’altra ragione, più profonda. I suoi genitori non la capivano. Chiaramente quest’affermazione sarebbe stata liquidata come “lamentela adolescenziale” da qualsiasi persona avesse udito le sue proteste – se solo Natalia fosse stata quel tipo di ragazza che provava sollievo e piacere nel narrare le sciagure della propria vita a qualcun altro – ma in realtà non era così.
Natalia pensava di non essere compresa perché era davvero così. I suoi genitori non la capivano, spesso non la ascoltavano e, le rare volte in cui lo facevano, non credevano alle sue parole. Era come parlare con il silenzio.
Era per quella ragione che Natalia ora si trovava lì, in quell’auto, a sfrecciare lungo le strade deserte nel cuore della notte.
Perché aveva cominciato a dire delle cose, e i suoi genitori non le avevano creduto.
Dichiarava di vedere cose… e ricordare persone… e udire suoni…secondo loro... Inesistenti.
Nessuno le credeva. Nessuno aveva voluto darle ascolto.
Senza neanche rendersene conto, si era ritrovata in una stanza dalle pareti bianche con una luce accecante, vittima degli uomini vestiti di bianco, che erano decisi a farle affermare che lei non vedeva nulla, che loro avevano ragione. All’inizio, Natalia era stata ostinata, aveva perseverato e ripetuto dieci, cento, mille volte che lei vedeva cose che esistevano davvero.
Poi, però, quando aveva finalmente compreso che se non voleva più tornare nelle stanze bianche, circondata da persone che volevano farle negare la verità, c’era una sola cosa che potesse fare. Assecondarli.
Così, un giorno aveva apparentemente smesso di combattere. Aveva sorriso, e dichiarato di non vedere o sentire più nulla.
Tutti sembravano felici.
Gli uomini vestiti di bianco, i suoi genitori. Avevano smesso di chiamarla mentalmente instabile. Ma etichette come pazza, visionaria, folle, non si staccano facilmente, sono terribilmente resistenti.
E tutti, nel suo quartiere, avevano iniziato ad additarla come tale.
Le lanciavano occhiate ricolme di quelle emozioni catalogabili come compassione e pietà, e anche un po’ di malcelato divertimento, perché l’innato sadismo dell’essere umano spinge a sorridere delle sciagure altrui.
Natalia era consapevole di tutto ciò che accadeva attorno a lei, ma fingeva di non accorgersene, fingeva che non avesse importanza, che non le facesse male.
Invece i suoi genitori non riuscivano a sopportarlo. Avevano dunque deciso di trasferirsi altrove, di andare lontano dove nessuno fosse a conoscenza del passato della loro figlia.
Per Natalia, quel viaggio improvviso era come una fuga. Ma da cosa, esattamente? Dalle persone, dai giudizi, dagli sguardi?
Da una paura.
Lei sapeva che loro, giudicandola ancora psicologicamente fragile, temessero una sua caduta nella depressione ed un suo conseguente terribile atto insensato dettato dalla disperazione.
Inutile specificare quanto Natalia trovasse terribilmente ridicolo tutto ciò.
Il giorno in cui aveva dichiarato di non vedere né udire nulla, corrispondeva ad un’ammissione di colpa. Aveva praticamente ammesso di essere stata pazza. Ma lo aveva fatto unicamente perché si era resa conto di non avere altra scelta.
In cuor suo, sapeva di non essere matta: poteva, un folle, avere la sua stessa mente lucida? No. Lei non era pazza. Tutto ciò che aveva sostenuto di ricordare, era realmente accaduto. Lo avrebbe tenuto per sé, un segreto celato per amore dei genitori e per impedire che gli altri la considerassero anormale.
Ma in realtà non avrebbe mai lasciato andare i propri ricordi, nessuno aveva il potere di controllare la sua mente. Si sentiva come un guerriero prigioniero dell’esercito nemico che, privatosi della propria appariscente armatura, custodisce in realtà un coltello nascosto negli stivali.
Rivolse gli occhi grigi alla scintillante luna, alta nel cuore della notte, altera e distante come una regina, che mira il suo popolo con freddo disinteresse.
Per un istante, solo per un istante, desiderò essere una stella e vagare nell’universo.
Lontana da tutto e tutti, sola per sempre.
Nessun commento:
Posta un commento