IL RAGAZZO SENZA SOGNI
CAPITOLO 1
Per quanto ne sapeva Alessandro, non aveva mai sognato.
Secondo Roberto, il suo migliore amico, ciò era semplicemente impossibile. Tutti sognano, e di sicuro lo faceva anche lui, semplicemente non lo ricordava.
Alessandro sapeva, razionalmente, che l’amico aveva ragione. Ma in cuor suo non era mai riuscito a dare completamente credito a quella teoria perché, se in diciassette anni non aveva ricordato nessun sogno, non poteva essere casuale.
Semplicemente, durante il sonno il suo cervello si spegneva, come bloccato, per poi riaccendersi al mattino.
Nel frattempo, le tenebre più assolute regnavano nella sua mente, e svegliandosi aveva la terribile impressione di riemergere dall’oscurità, un buio privo di immagini, da un sonno che non era riposo, ma piuttosto un oblio simile alla morte.
Da bambino aveva invidiato i suoi amici, che raccontavano affascinanti avventure vissute nel mondo onirico. Aveva l’impressione di perdersi qualcosa di bello, qualcosa di unico, come un videogioco in terza dimensione.
Per anni si era domandato cosa volesse dire vivere, seppure solo per un po’, in una realtà differente, terribile o paradisiaca, creata dalla sua mente. Un mondo dove nulla era impossibile, un luogo meraviglioso o inquietante nel quale ogni pensiero poteva diventare reale.
Con il passare del tempo, aveva smesso di chiederselo, accettando la propria diversità.
Ecco perché, anche quella notte, Alessandro aveva spento la luce, si era disteso sotto le coperte e si aspettava di essere avvolto dalla consueta- in fondo confortante- tenebra fino al mattino, certo che neppure quella notte Morfeo lo avrebbe sfiorato con un tocco che per lui era leggenda.
Ma il destino si diverte a giocare con l’uomo come il gatto con il topo. O, come una misteriosa cartomante, si diletta a rimescolare fra i tarocchi le carte ormai note, per poi estrarne di nuove e cambiare totalmente ogni previsione sul futuro.
Quella notte il destino di Alessandro estrasse le sue carte.
Infatti, per la prima volta, il ragazzo sognò.
Intorno a lui era tutto buio. Era chiaramente notte, e lui si trovava in una stanza dove ogni luce era spenta…
Si guardò attorno, rendendosi conto che la stanza buia era proprio la sua!
Era perplesso. Dov’erano i mondi lontani, gli universi paralleli?
Forse non era un sogno, forse si era semplicemente svegliato.
Si voltò verso il suo letto. Non era vuoto.
-C’è qualcuno che dorme nel mio letto. Un ragazzo… e quel ragazzo… sono io! – esclamò, sorpreso.
Era assurdo. Dunque, di sicuro stava dormendo. Chi mai, nella realtà, potrebbe guardarsi dormire?
Bene, proprio come gli avevano detto i suoi amici, stava sperimentando una situazione impossibile da vivere nella realtà. Ecco, ora stava scoprendo anche lui cosa volesse dire sognare.
Ma era normale che si sentisse così consapevole di farlo?
Sentiva la sua mente così vigile, forse persino più sveglia e reattiva di quanto non fosse durante la veglia.
Si guardò intorno più attentamente. Cercava di scorgere qualche significativo cambiamento nella rappresentazione mentale della propria camera, magari qualcosa di simbolico, ma non ne individuò nessuno.
La sua camera gli sembrava in tutto e per tutto identica a come la ricordava. Probabilmente, una tale precisione nei dettagli era dovuta alla sua memoria. Sì, non c’era altra spiegazione.
“Forse ora accadrà qualcosa” si disse. E si mise in attesa. Non sapeva cosa aspettava. L’arrivo di qualcuno, un cambiamento di scenario, qualcosa, qualsiasi cosa che movimentasse la situazione.
Ma non accadde nulla.
Aveva sognato, semplicemente di trovarsi in piedi nella sua camera a guardarsi dormire. Altro che avventure!
Eppure percepiva che non era tutto uguale, qualcosa, nell’atmosfera, doveva essere diverso, ne era certo.
Cercò di capire a cosa fosse dovuta quella sensazione, e dopo qualche istante se ne rese conto con perfetta lucidità.
In quella stanza buia, le rassicuranti forme a cui era abituato erano spaventose, tetre, oscillavano come mostri silenziosi. Sì, proprio così: le ombre si muovevano, danzavano in modo macabro sul pavimento e lungo le pareti, ed iniziò anche ad udire voci sibilanti, indistinte, ed agghiaccianti sussurri.
Nell’aria fluttuavano strane forme colorate, simili a lunghi nastri evanescenti. Anch’essi, come le ombre, oscillavano.
Nella sua stanza ce n’erano vari, di un cupo color rosso scuro.
Con lo sguardo ne seguì la forma sinuosa, cercando di capire da dove provenissero.
Con stupore si rese conto che provenivano dalle sue labbra, che nel sonno erano semichiuse.
Sollevò una mano, ed istintivamente allungò le dita verso quella flebile luce fluttuante.
Era calda.
“Curioso” sussurrò una voce “sto sognando, sto sognando davvero.”
Un momento! Ma questi…
“Non era mai accaduto, prima! Ma è davvero un sogno? Sembra tutto così strano e confuso…”
-Questi sono i miei stessi pensieri! – esclamò, sorpreso. Quelle frasi gli si erano riversate nella mente, tutti insieme, come se tante copie di sé stesso parlassero nella sua testa contemporaneamente.
Allontanò la mano, e le voci sparirono. Le sue dita, però, continuarono per un po’ a splendere del bagliore rossastro che aveva sfiorato.
Meravigliato, osservò le punte delle sue dita. Le strofinò, ma la luce non scomparve.
D’improvviso una strana malinconia, una profonda angoscia lo avvolse, prendendo possesso delle sue membra.
Provò una sensazione di sofferenza acuta e terribile, come se non fosse mai stato felice in tutta la vita, o come se non potesse esserlo mai più.
Aveva voglia di piangere, e lo avrebbe fatto davvero, se non avesse pensato razionalmente che non c’era nessuna ragione per cui dovesse sentirsi tanto infelice.
Tuttavia, doveva esserci una spiegazione per quei sentimenti cupi e tristi.
Si accorse che il suo piede sfiorava una scia di fumo grigio.
Proveniva dall’alto, dal piano superiore della casa. Si chinò per sfiorarlo.
“Non è giusto. Che cosa ho fatto? Mai sono stato tanto umiliato… perché? Perché adesso? Perché così?”
Era la voce di suo fratello Nicola. Aveva venticinque anni e lavorava a Londra, ma quella settimana era a casa in vacanza, sarebbe partito il mattino seguente.
Turbato, Alessandro seguì la scia su per le scale. Si fermò dinanzi alla porta chiusa di suo fratello. Come avrebbe fatto a spingerla e ad entrare?
Tuttavia, il fumo grigio passava attraverso la porta e sembrava chiamarlo. Così il ragazzo, rispondendo ad impulsi a lui stesso ignoti, allungò la mano destra verso la porta.
Al suo contatto, questa si fece trasparente e scomparve, permettendogli di passarvi attraverso.
“Sono come il fantasma di un film dell’orrore” pensò Alessandro, non senza provare una certa eccitazione.
Ora che si trovava nella stanza del fratello, poteva vedere che non dormiva. La lampada era accesa, e lui era lungo disteso sul suo letto, i bei ricci castani sparpagliati come foglie secche d’autunno, sul viso l’espressione di chi ha perso tutto. Dalle sue labbra e dal tutto il suo corpo si disperdeva nell’aria un’aura grigia che grondava di tristezza, e che si spargeva in ogni direzione, contagiando tutto quel che toccava.
Cercando di evitare le forme grigie che si dispiegavano nell’aria simile a nubi temporalesche, il ragazzo si avvicinò al letto di suo fratello.
Stava guardando lo schermo del cellulare, anche se era tardi qualcuno gli aveva appena inviato un messaggio, gettandolo nel più profondo sconforto.
Alessandro provò a richiamare la sua attenzione, ma era come se fosse invisibile.
“E’ un sogno sempre più strano” pensò, e inclinò la testa per leggere il messaggio.
Proveniva da “angelo mio”, il nome con cui suo fratello aveva salvato il nome della fidanzata, Luisa. Era italiana. Si erano fidanzati all’età di ventidue anni, ma nell’ultimo anno i rapporti fra di loro si erano incrinati, e lei minacciava di lasciarlo circa ogni due mesi, soprattutto da quando lui si era dovuto trasferire all’estero, sei mesi prima.
A giudicare dal messaggio, lei minacciava di lasciarlo di nuovo. E suo fratello era depresso per questa ragione, continuava a fissare lo schermo del cellulare con aria triste ed angosciata.
Lo vide gettare il cellulare dall’altra parte del letto e sprofondare il viso nel cuscino. Le ombre grigie sussurravano in maniera cupa.
“La odio, come può farmi questo? Accusarmi che io non tenga a lei? Non mi capisce... No, non è vero che la odio, magari potessi odiarla, mi fa stare così male… vorrei solo che si rendesse conto di quanto mi fa soffrire, quanto!”
Di nuovo, Alessandro si sentì contagiato dallo sconforto del fratello, emozione di cui l’aria era satura.
Doveva andarsene, decise, e uscì dalla stanza.
Scese i gradini lentamente, seguendo di tanto in tanto con la coda dell’occhio le ombre che sfrecciavano sui muri. Erano le ombre degli oggetti. Nel buio si muovevano, cercando di evitare le forme fluttuanti e colorate, e lui le percepiva.
Alcune sussurravano, come creature vive, e il loro suono era simile al sibilo di un gruppo di serpenti.
Ma Alessandro non aveva paura.
Era tranquillo, come se avesse atteso tutta la vita per quell’unico istante, per quella meravigliosa notte solitaria. Non sapeva per quale ragione si sentisse talmente rilassato.
“Forse perché so che è solo un sogno, e i sogni non sono reali” si disse. Soddisfatto della spiegazione che si era dato, continuò a vagare per la casa. Giunse in salotto e vide il grosso gatto rosso di casa, Tibert, muoversi verso di lui.
Aveva un corpo, ma si muoveva silenziosamente come se, come Alessandro, non lo avesse.
Il gatto si fermò e lo guardò, con i suoi occhi d’oro simili a scintillanti frammenti di madreperla.
Che strano, pensò Alessandro. Il felino guardava proprio come se potesse vederlo.
E poi, con stupore ancora maggiore, gli parlò.
-Era da tanto che attendevo questo momento, umano – esclamò, drizzando le orecchie.
Alessandro rimase pietrificato.
-Che cosa vuol dire? E perché mi stai parlando? Come sei capace di parlare la mia lingua, Tibert? –
Il felino parve annoiato. –Io, parlare la lingua degli uomini? Niente affatto! La comprendo, naturalmente. Ma non mi abbasso certamente a parlarla. Sei tu a capire la mia lingua, essere umano. L’hai sempre conosciuta. Se lo desideri, conosci tutte le lingue. –
Il ragazzo era sempre più confuso. Voleva fare altre domande, ma poi si mise a ridere.
-Ah, sono proprio uno sciocco, vero? Mi stavo comportando come se tutto questo fosse reale. Eppure mi avevano messo in guardia, i miei amici, dicendomi che nei sogni possono accadere le cose più strane! –
Disse, rassicurandosi.
Il gatto, sempre fermo ed immobile, lo guardò come se lo stupido fosse lui.
-Voi umani siete davvero ottusi– commentò, con aria di superiorità, rivolto più a sé stesso che al ragazzo.
-Come potete essere ciechi persino dinanzi a ciò che avete sotto gli occhi? Non sei più un dormiente, ma non ti sei neanche svegliato del tutto, è evidente. Non puoi ancora capire. E non puoi ancora credere. –
Alessandro, per qualche ragione, s’inquietò per quelle parole.
-Non ti capisco. –
-E cosa vuoi che m’importi? Non è mio dovere spiegarti. Non rientra nelle mie competenze, e non ne ho neppure voglia. – aggiunse bruscamente il felino.
-Tanto non m’interessa – fece Alessandro, per tutta risposta – Tu non sei reale. Nulla di tutto questo lo è. Quando mi sveglierò, sarà tutto finito. –
-Sei uno sciocco! – constatò il gatto, stizzito.
-Onestamente, speravo che Lunaria avesse scelto un erede migliore di te. Ad ogni modo, per svegliarti, devi distenderti di nuovo sul tuo corpo. –
-Ma, Tibert, nessuno mi ha mai detto… -
-Te lo dico io! – sbottò il felino, con il tono di chi è abituato a non essere un sottoposto.
-Non ti credo- il ragazzo incrociò le braccia sul petto, come un bambino capriccioso che si rifiuta di scendere dalle giostre. Il felino si allontanò, lentamente.
-Dovrai farlo per forza. E’ il solo modo, e te ne accorgerai da te. A proposito, smetti di chiamarmi Tibert. Il mio vero nome è Reginald. –
Il gatto lo lasciò e lui rimase solo, fra le ombre sibilanti, avvolto dalle tenebre.
Ormai solo, ripassò mentalmente quanto gli era accaduto dall’inizio del primo sogno della sua vita.
Aveva visto sé stesso dormire, avevo ascoltato le ombre, aveva seguito dei nastri colorati emessi dalle labbra e dal corpo delle persone, aveva parlato con un gatto. Cosa poteva accadere, ancora?
Oh, lo sapeva bene: poteva accadere che il gatto avesse ragione.
Era possibile? Era davvero possibile che Reginald, il tranquillo e sornione gatto di casa, gli avesse appena parlato, come un essere umano?
Si rimproverò. Lo stava facendo di nuovo! Doveva tenere bene a mente che nulla di ciò era reale. Era solo un sogno. Strano, particolare, ma nulla di più.
Solo un sogno…
Ne era proprio sicuro?
Si aggirò ancora un po’ senza meta nei corridoi bui della sua casa, camminandovi come se fosse la prima volta. Ogni cosa era spaventosa ma affascinante.
Tornò nella sua stanza. Il suo sé stesso dormiva. Si avvicinò alla finestra. E rimase senza fiato.
Una miriade di sfere luminose splendevano nell’aria come stelle, ma non erano stelle, e pulsavano come cuori bianchi, in mezzo alle scie di vari colori, uguali a quelle già viste in casa sua.
Che meraviglia, pensò. E, subito dopo, si chiese perché tutto ciò che vedeva gli sembrasse così reale, così… vero.
E se lo fosse? E se davvero solo tu potessi vedere tutto questo, e parlare con gli animali?
Non pensarci. È un sogno. Ti sveglierai e tutto scomparirà, forse, non ricorderai nulla di tutto questo…
Voltò il capo. Il suo sé stesso dormiva.
Si avvicinò lentamente.
Voleva farlo davvero? Stava davvero per seguire il consiglio che un gatto gli aveva dato in un sogno?
Ridicolo. Ma, tra l’altro, era un sogno, che male c’era? Forse, ogni sogno aveva le sue regole, e lui doveva rispettarle.
Salì sul letto, si distese, perfettamente sul suo corpo e chiuse gli occhi, mentre nelle sue orecchie le ombre sibilavano: “il dormiente si sta risvegliando”.
Alessandro spalancò gli occhi nelle tenebre, alzandosi a sedere sul letto. Si guardò attorno. La sua stanza era normale. Ogni ombra era immobile. Non si udiva neppure un sussurro.
L’aria era priva di nastri colorati.
Si alzò e avanzò sul pavimento. Era freddo e i suoi passi erano rumorosi e pesanti, umani. Era stato così piacevoli sentirsi leggero come l’aria, nel sogno!
Si avvicinò alla finestra, scostò la tenda.
Nessuna luce bianca.
Quelle piccole stelle erano, dunque, mera invenzione della propria mente.
È tutto falso. Era davvero soltanto un sogno.
Il ragazzo provò una sensazione strana, si sentì come un bambino deluso, che all’apertura di un regalo scopre di non aver ricevuto il dono desiderato, come se quel modo di vedere gli appartenesse da sempre, come se lui fosse nato per vedere la realtà sotto
Se ne tornò a letto. Aveva sperato di non ricordare, invece ricordava e ciò che aveva perso gli mancava.
Per un attimo, aveva creduto davvero di essere diverso.
E invece era come tutti gli altri. Aveva sognato un’illusione che al mattino si era disciolta come neve al sole, come una promessa infranta, come una bugia. Che stupido!
Ma era stato così reale… sembrava così reale…
Si avvolse su sé stesso, sforzandosi di dormire, ma non ci riuscì più. Rimase sveglio, sino al mattino.
Quando scese per far colazione, suo fratello aveva un’aria depressa. Continuava a fissare il piatto dei cereali con sguardo vitreo, in attesa di un latitante appetito.
-Che succede, Nicola? – gli chiese Alessandro, mettendogli premurosamente una mano sulla spalla. Il ragazzo trasse dalla tasca il cellulare, digitò qualcosa sullo schermo sensibile al tocco, poi glielo passò.
-Leggi – disse, burbero.
E Alessandro lesse. Per un attimo, avvertì un stretta allo stomaco.
Sullo schermo del cellulare di Nicola c’era lo stesso messaggio che aveva letto quella notte, in sogno.
Come poteva trattarsi di un caso?
Persino le parole erano le stesse.
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