venerdì 19 giugno 2020

Dreamless boy ~ Capitolo 3


Solo un sogno?



Roberto aveva notato che il suo amico Alessandro era alquanto taciturno quella mattina, in classe. Tuttavia non gli chiese niente. Lo conosceva bene, e sapeva che quando assumeva quell’espressione significava che era concentrato su pensieri contorti, pensieri che avrebbero dovuto condurlo ad una conclusione importante, e non amava essere interrotto proprio quando aveva quasi risolto ogni mistero. 
Però i ragionamenti di quella mattina lo avevano tenuto impegnato sin troppo, e Roberto detestava essere ignorato dal suo compagno di banco. 
Così, timidamente, gli poggiò una mano sulla spalla. 
-Tutto bene? Sembri svagato… - gli domandò, in un sussurro. 
Alessandro si ridestò dal suo coma. Si guardò attorno con la stessa espressione attonita di chi si chiede dove si trovi e perché. 
Era in classe, seduto al secondo banco della fila centrale, nel bel mezzo di una spiegazione di italiano che, per una volta, gli era impossibile seguire. Generalmente era il più attento di tutti, sempre uno studente modello, sempre razionale, sempre preso da tutto ciò che fosse pratico e concreto. La matematica, per esempio, o la fisica. Materie in cui non c’era bisogno di esprimere riflessioni personali. 
Due più due fa quattro, radice quadrata due. Così è sempre stato e così sarà sempre, amen. Nessuna opinione, nessun dubbio. Basta conoscere la formula giusta per non avere il minimo tentennamento neppure nell’esercizio più complicato. 
Alessandro era un ragazzo riflessivo, ma la sua mente era abituata a procedere per processi logici e razionali. 
Ora, invece, si stava distraendo nel bel mezzo di una lezione, perché non riusciva a togliersi dalla testa il ricordo di quanto era avvenuto quella assurda notte. 
Lui, il ragazzo che non aveva mai sognato, la prima volta che c’era riuscito aveva visto qualcosa di reale, aveva scoperto di potersi muovere nel buio senza essere visto, e di poter vedere non solo ciò che accadeva intorno a lui, ma soprattutto l’invisibile. Le emozioni delle persone. 
Assurdo! Si ripeteva, prendendosi la testa fra le mani. Nessuna di quelle cose aveva senso, non poteva accettarle come vere. Però, per quanto gli risultasse difficile crederci, come poteva negare di aver letto sul cellulare di suo fratello un messaggio identico a quello visto nel suo sogno? 
Se solo non lo avesse visto, avrebbe potuto catalogare quella strana notte come nulla di più anomalo di un sogno strano. 
Gli tornò in mente uno dei particolari più bizzarri del suo sogno. 
Ginger, il gatto. Ginger aveva parlato, Ginger era un gatto e nessun gatto parla. 
Ciò che lo inquietava di più era il fatto che, pensandoci, era innegabile che non fosse mai stato un felino comune. 
Non era un trovatello e non lo avevano adottato: semplicemente, una mattina si era fatto trovare dinanzi alla porta della loro casa, seduto sullo zerbino, fiero e con le orecchie dritte. Come se avesse in qualche modo scelto la sua nuova casa, e come se pretendesse di essere accolto.
Alessandro ricordava di averlo giudicato bello e regale. Ricordava proprio di averlo detto, di averne elogiato la bellezza quasi innaturale ed il folto pelo fulvo, e ricordò il felino che, a quei complimenti, aveva gonfiato il petto, compiaciuto. 
Come se avesse capito. 
C'erano state numerose occasioni in cui il suo gatto si era comportato in modo decisamente poco ferino, e aveva dimostrato di avere un intuito particolare per certe richieste. 
Nonostante i suoi comportamenti insoliti, che certamente lo avevano spesso indotto a pensare che fosse dotato di un’intelligenza inconsueta e al di sopra della media, mai aveva lontanamente pensato che… potesse parlare! 
E poi, se ne era capace, perché aveva atteso proprio quella notte per rivelare le proprie capacità? Perché solo con lui? E perché, quel mattino, si era comportato come se nulla fosse accaduto, mangiando il suo cibo con il solito garbo? 
Forse sto impazzendo, pensò Alessandro. 
E poi, da mente razionale qual era, pensò di doversi ricordare quella data, per poi contare i giorni che avrebbe impiegato ad annegare nella follia più totale. 
Poteva essere un esperimento interessante… 
-Alessandro? Sembri un po’ perso, oggi – commentò ancora Roberto, guardandolo con uno sguardo non più sorpreso di quello che avrebbe rivolto ad un tipo che se ne fosse andato in giro con i capelli verdi, o viola. 
Alessandro sospirò. 
-Se tu sapessi cosa è accaduto stanotte – bisbigliò, a disagio. 
-Cosa è successo? – domandò l’altro, curioso, inclinando il capo nella sua direzione. 
Roberto amava le storie, ed era molto curioso di conoscere il misterioso motivo di afflizione del suo amico, quel qualcosa che era riuscito a distrarlo per quasi tutta la durata della lezione. 
Alessandro però, giunto il fatidico momento di parlare, si sentì la gola secca.
Da dove incominciare? Non aveva un discorso ordinato in mente. Non poteva parlare in quel momento: se lo avesse fatto, avrebbe finito con il blaterare qualcosa di insensato su un gatto che parlava e suo fratello che litigava a telefono con la sua fidanzata. 
Un pasticcio di parole senza capo né coda, e senza senso.
No, non poteva parlare in quel momento, Roberto lo avrebbe scambiato per un matto – non lo era, ed era sicuro di non esserlo, o almeno non ancora – e poi l’insegnante stava spiegando. 
-All’intervallo ti spiegherò tutto. – promise, guardando dritto davanti a sé, come se desiderasse ascoltare davvero l’insegnante. Ma non ci riusciva, e sapeva che avrebbe trascorso anche il resto della lezione a riordinare i pensieri. 
Roberto si ritirò, leggermente deluso. Ma la procrastinazione delle spiegazioni non fece altro che aumentare la sua curiosità. 

L’intervallo arrivò prima di quanto Alessandro sperasse e così, quasi senza accorgersene, si ritrovò inchiodato al termosifone, con gli occhi di Roberto fissi su di sé, pieni di curiosità. Il ragazzo era interessato a comportarsi da bravo amico e a liberare Alessandro dal suo peso, ma questo non si decideva a spiccicare parola. 
-E’ difficile da spiegare. Non so se mi crederai. Se me lo raccontassi tu, io non ti crederei… lo farei con molta difficoltà, almeno – spiegò, imbarazzato, con le braccia incrociate sul petto. 
Roberto era sempre più curioso. 
-Provaci – lo sfidò. 
L’altro sospirò. 
-E va bene. Stanotte ho sognato. Ma credo non fosse un sogno. Io penso… penso piuttosto che il mio spirito sia capace di vagare mentre il corpo dorme, ed è capace di vedere cose che gli altri non vedono, e udire cose che gli altri non sentono. – 
Aveva unito le parole e tenuto gli occhi bassi. Finalmente li sollevò per incrociare gli occhi dell’amico. Come si aspettava, vi albergava uno sguardo più che perplesso. 
-E’ assurdo. Impossibile. – 
-Sembrava reale – 
-I sogni lo sembrano sempre. Tu naturalmente non sei un esperto in materia, ma lascia che te lo dica io – 
Alessandro annuì. Inizialmente aveva pensato che erano quelle le cose che desiderava sentirsi dire, sapeva che Roberto gli avrebbe risposto in quel modo. Ma, da un’altra parte… voleva sentirsi dire che era vero, che aveva ragione, che era speciale. In un certo senso, non sentirselo dire fu una delusione. 
Però del resto cosa poteva saperne, Roberto? Non era stato lui a vivere quell’esperienza. 
-Forse hai ragione – gli disse, semplicemente. Ma lo disse soltanto per porre fine alla discussione. In realtà, non credeva affatto che il suo amico fosse nel giusto. 

***

Tornando a casa, quel pomeriggio, Alessandro era ancora preso dai suoi pensieri. Stringeva saldamente nella mano destra un ombrello blu, per ripararsi dalla pioggia insistente. 
Intorno a lui, alberi nudi e silenziosi decoravano il paesaggio autunnale. Ogni cosa sembrava riflettere il grigio cupo del cielo. Tutto era immobile, come di pietra. 
Guardava la strada dritto davanti a sé, con espressione indifferente. Aveva appena imboccato il suo vicoletto, quando si bloccò. 

Angoscia. Dolore. Aiuto. Non ce la faccio, non ne posso più. 

Perché mi sento così? Si chiese. Non aveva alcuna ragione per provare simili sentimenti.
D’improvviso, ebbe un’illuminazione. 
Probabilmente stava accadendo la stessa cosa di quella notte, ossia qualcuno provava quelle emozioni, che si espandevano nell’aria come ombre, contaminando tutto ciò che toccavano. 
Però il dolore di suo fratello non era nulla, se paragonato a questo. Chi era capace di provare una sofferenza simile? 
Istintivamente sollevò la testa, scrutando le finestre dei palazzi alla sua destra. 
Alla finestra del secondo piano c’era qualcuno. 
Una ragazza. 
Immobile, stretta in una felpa di un colore chiaro, il cappuccio tirato fin sopra i capelli. 
Si era accorta di essere osservata, ma non per questo si allontanò dalla finestra. 
Neanche Alessandro si mosse. 
Era lei? Era quella ragazza, colei che soffriva in quel modo atroce? Perché? E chi era? Dal marciapiede non ne vedeva bene i lineamenti, per di più la pioggia gli offuscava la vista, ma era abbastanza sicuro di non averla mai vista. 
Per di più la casa in cui si trovava era stata disabitata per alcuni anni. In effetti, il ragazzo non aveva idea dell’arrivo dei nuovi inquilini. 
Doveva essere giunta in paese da poco, dedusse. 
Si rese conto che si stavano fissando già da un po’, lui e la ragazza col cappuccio, e pensò di alzare la mano destra, in cenno di saluto. 
La ragazza non ricambiò il gesto, e lui si sentì uno stupido. 
Abbassò la mano, se la mise in tasca, chinò la testa e riprese a camminare, svelto. Cosa gli era preso? Era chiaro che lei non lo aveva salutato: perché avrebbe dovuto? Non lo conosceva nemmeno. 
Ma allora perché ci era rimasto così male? 
Non sapeva spiegarselo. 
Ripensò al motivo per cui aveva incrociato il suo sguardo, ossia l’aver percepito tutti quei dolorosi sentimenti, forse suoi, forse no.
Ne era veramente capace, dunque? Riusciva davvero a percepire i sentimenti delle persone? 
Arrivò a casa quasi senza accorgersene. Depositò l’ombrello nel porta ombrelli e, prima di dirigersi al piano superiore, si accostò alla poltrona di Tibert, per carezzargli la testa. 
-Ciao, micetto- lo salutò, per studiarne la reazione. 
Il felino ricambiò le sue parole con uno sguardo cupo ed altezzoso, come a dirgli di non azzardarsi a chiamarlo “micetto” una seconda volta, se non voleva ritrovarsi con le dita della mano straccate a morsi.
Il ragazzo era sempre più turbato. Tibert, come si aspettava, non si comportava per niente come un gatto normale. Però non parlava più. Perché? 
Forse si stava lasciando suggestionare troppo, forse non aveva mai parlato, e dunque non doveva aspettarselo. Alessandro non voleva impazzire. Era disposto a credere che fosse tutto un’illusione, che non avesse nessun dono speciale. Ma sapeva cosa aveva sentito e percepito, nel sogno e poco prima, in strada, perciò la sua mente pragmatica necessitava di prove concrete davanti alle quali fosse impossibile dire “io non credo”. 
Un’espressione di decisione comparve sul suo viso. 
Se questa notte lo farò ancora, potrebbe voler dire che sono realmente capace di fare ciò che credo. Altrimenti capirò che si è trattato solo di un bel sogno, e non ci penserò mai più. 

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